Questo articolo sarà pubblicato su Domus 1077, in edicola dal 4 Marzo.
“Ma certo, questa è la casa dove è nato. Oggi è un museo. Se vuole vedere quella dove viveva, vada su. Tutto a destra. Dopo le due rotonde. Una villa con tanti vetri. Se suona, la moglie le apre. Merita”.
La moglie? “Un geometra straordinario. Davvero all’avanguardia”.
La cortesia della signora è difficile da frenare. “è sempre stato avanti. Lo so perché ha costruito il mio stabile. Le tapparelle tutte bianche. E anche gli arredi. Tutto bianco”.
Dopo aver chiesto a due ragazze, ignare persino dei punti cardinali, e a due signori di mezza età, che si limitano a scuotere la testa, alla gentilezza della proprietaria dello stabile con gli arredi bianchi si può concedere persino di confondere tutto. Anche che lo scrittore Meneghello diventi il geometra Meneguzzo. Siamo proprio davanti all’orto de I piccoli maestri (1964), sublime e terribile affresco di un’adolescenza partigiana, e a Casabianca, l’ottocentesco palazzo adibito a museo della grafica che riflette l’abbandono nel cubo di vetro di un’assicurazione, in una villa in puro stile kazako fra le altre che balcanizzano il piano regolatore di questo perfetto esempio di provincia metafisica.
In realtà, nessuna delle villette postmoderne è riconducibile all’innocente geometra, il cui studio ovale è protetto da un’alta siepe davanti al cimitero umbertino nel quale, aggirando un garage seminterrato che in realtà è l’ampliamento dei loculi, si giunge a calpestare la lapide di Luigi Meneghello e di sua moglie Katia Bleier. Non vive dunque nella casa dalle grandi vetrate, dopo la seconda rotonda.
Sono le 14 di un sabato qualunque d’inverno a Malo, il paese natale di Meneghello reso famoso dal suo libro d’esordio, Libera nos a malo (1963). Una preghiera esaudita per lui, forse, che fuggì a Reading, in Inghilterra, a curarsi lo spirito. Insegnando italiano e abbandonando Malo a un destino senza redenzione. L’unica differenza, forse, è che Meneghello spiegava la gente e la cultura dell’alto vicentino dagli anni Trenta ai Sessanta raccontando le ombre che si proiettavano sulle case, la disposizione delle vie e delle porte e “la forma dei rumori e di questi pensieri (...) per un momento più vera del vero”. Oggi, invece, questo racconto è surrogato dal “consolidato urbano”, come lo definisce la Valutazione Ambientale e Strategica della Regione Veneto.
Lo spazio borgato era chiuso da fermagli di fossi […] e qui in cima al paese la strada che va alle Case e corre lungo la mura del Montecio. Questa è una piccola altura oblunga e irsuta nel mezzo dei campi cintati del Conte, dai quali un muro divide l’orto di casa mia.
Luigi Meneghello
Dalla Malo di Meneghello alla Malo di oggi, questi 30 km di superficie comunale sono divenuti “come un territorio in cui non è possibile distinguere in modo netto i centri abitati, che si attestano per lo più lungo la SP46 senza soluzione di continuità”. Anche San Tomio, una delle tre frazioni, è divenuta con Malo “un’unica realtà urbana dal punto di vista morfologico-insediativo, per l’azione di cucitura svolta dalla zona commerciale lungo la SP46”. Quelle case alle cui proporzioni Meneghello attribuiva la dimensione di “sfere sopramondane che hanno più importanza che non si possa dire e che si dovrebbe trascrivere in chiave neoplatonica” sono oggi le villette delle due frazioni. Case di Malo a nord, verso il confine con il comune di San Vito di Leguzzano, e Molina di Malo a est, verso Thiene. Più che in provincia di Vicenza pare di essere in un imprecisato territorio fra la Romagna e il Tagikistan che, come recita la Valutazione Strategica del 2010, appare “quasi un’unica entità urbana autonoma dal punto di vista morfologico”.
Solo il centro di Malo resta quasi intatto, con l’eccezione forse che allora si poteva prendere almeno un caffè di sabato pomeriggio, mentre oggi è tutto chiuso persino nella piazza centrale, dove sui cartelli del proprio centenario Meneghello guarda severo una maschera di clown fuori scala. D’altronde, è Carnevale.
Anche cercando la casa di un altro straordinario scrittore veneto si rimane sorpresi dal cambio di narrazione. Nato a Vicenza, vissuto a Roma e Milano, dove conobbe l’amore della sua vita, la pittrice Giosetta Fioroni che adornò la sua casa assieme a Schifano e molti altri amici, attivo come reporter del Corriere della Sera in Cina, Vietnam, Giappone, Biafra, Laos e Cile, Parise scelse di finire i suoi giorni a Salgareda, piccolo centro in provincia di Treviso cresciuto proprio dietro l’argine del Piave. Prima alla Casa delle fate, spartano e poetico podere nella golena del fiume, dove l’atmosfera ricorda moltissimo quella de Il ragazzo morto e le comete (1950). Anni dopo, quando l’arteriopatia diffusa gli impose quattro bypass e un ciclo di dialisi, si spostò nel centro di Ponte di Piave, in un’altra casa che volle avesse due giardini, dove le sue ceneri ancora oggi riposano.
La mancanza di desideri è il segno della fine della gioventù e il primo e lontanissimo avvertimento della vera fine della vita.
Goffredo Parise
Qui, superato il sacchetto di patatine davanti al cancello, c’è un museo civico ben tenuto, essenziale come il suo scrittore, ma ben raccontato da un funzionario devoto. Al piano di sopra c’è una piccola ma fornita biblioteca. Di fronte, un nuovo asilo pubblico dai criteri architettonici all’avanguardia che guarda un parco di campi da tennis e supermercati che simulano quelli del deserto del Nevada.
Se Meneghello lavora sulla contaminazione fra lingua letteraria e dialettale, facendo emergere Malo come il simbolo del trapasso dalla società contadina alla modernizzazione più selvaggia, Parise racconta i propri luoghi rendendo tutte le sfaccettature del quotidiano da cui emergono motivi incomprensibili e spesso misteriosi, in un connubio di realismo e grottesco che riproduce l’evoluzione dell’ambiente dove scelse di finire i suoi giorni.
Trentaquattro anni dopo, nel 2020, la politica urbanistica di Salgareda continuava a far discutere. Un comitato di 250 fra cittadini e associazioni raccolse firme per sensibilizzare sulla necessità di procedere con scelte che tutelassero il territorio e l’identità del Veneto, che per Parise era l’unica patria per cui un veneto avrebbe mai combattuto. Girando oggi per Gonfo, Ponte di Piave e Salgareda, visitando l’outlet poco distante e riuscendo addirittura a prendere un caffè davanti alla Chiesa di San Michele Arcangelo, quel desiderio pare aver preso altre forme, fino forse a spegnersi.
“La mancanza di desideri è il segno della fine della gioventù e il primo e lontanissimo avvertimento della vera fine della vita”, scriveva Parise. Speriamo che, almeno in questo, si sbagliasse.