Nel Novembre 2016, a meno di un anno dalla dipartita di David Bowie, Sotheby's metteva all’asta una collezione molto particolare. Cento pezzi di Memphis – dalla libreria Carlton al cabinet Casablanca di Ettore Sottsass, passando per il Plaza Vanity Table di Michael Graves alla Super Lamp di Martin Bedin – che mettono in luce la passione che Bowie nutriva per il collettivo di artisti fondato nel 1981 a Milano. Un gruppo di designer il cui nome strizzava l’occhio a Bob Dylan e alla sua Stuck Inside a Mobile With The Memphis Blues Again – sibillino segno della gioventù Beatnik di Sottssass, condivisa da Bowie – d’altronde non poteva che incontrare i gusti di Bowie, che dedicò proprio a Dylan il titolo di una canzone sul suo primo LP di successo, Hunky Dory.
Bowie ne apprezzava la capacità di creare pezzi straordinariamente innovativi pur recuperando materiali retro e demodé come la formica, i laminati plastici e la radica. In un’intervista del 2009 per GQ, accanto al suo adorato tavolo Palm Springs di Sottsass, diceva “Da ragazzino ho trascorso un’incredibile quantità di tempo a leggere e disegnare seduto al tavolo del salotto, proprio come questo. […] Il tavolo è dell’originalissimo gruppo di designer milanesi Memphis, probabilmente è fatto di faesite e vecchie calze.”
A prescindere da nomi e riferimenti, l’amore di Bowie per questi oggetti non stupisce. All’inizio degli ‘80, Memphis incarnava quella spiazzante libertà artistica che già da oltre un decennio caratterizzava la carriera di David. Nelle scelte cromatiche di Memphis, sino ad allora mai osate, come nei pattern e nelle forme astratte, quasi infantili, dei suoi pezzi, si ritrova l’enigmatica e teatrale rottura con gli schemi degli alter ego di Bowie e delle loro liriche. Come i designer di Memphis hanno saputo rendere gli arredi di lusso dei giocosi e accessibili divertissement di forme e cromie, così Bowie è stato un intellettuale profondo e raffinato, ma mai elitario. Un design postmoderno per un visionario che partendo dal modernismo ha saputo farsi demiurgo di una modernità nuova, anzi futura.
Il modernismo alle radici del mito di Bowie
Nato David Robert Jones a Brixton, Londra sud, nel 1947, Bowie mostra una sensibilità verso il mondo dell’arte e del design ancora prima di diventare un musicista. È nel periodo degli studi di arte, musica e design alla Bromley Technical High School che Bowie si appassiona alla musica jazz e alle sue copertine dal taglio modernista. Da un lato il modernismo che permea il design e l’architettura del tempo, dall’altra quello della sottocultura Mod di cui il giovane David è adepto, saranno strumentali nel forgiare una sensibilità artistica che con il tempo renderà arte totale le copertine dei dischi, i video, i costumi e le performance.
È con questo spirito modernista, quell’essere sempre “one step beyond”, che Bowie padroneggia l’evoluzione della cultura popolare, leggendo lo spirito del tempo e incarnandolo prima del suo farsi moda, anzi dettandola.
Le copertine dei dischi come il loro contenuto, e più semplicemente i volti di Bowie, diventano la cartina di tornasole di cinquant’anni di design e cultura popolare occidentale, e attraversano i generi e le sottoculture, dal rhythm and blues della Londra dei primi ‘60 alla Jungle dei ‘90, passando per psichedelia, glam, “plastic soul”, new wave e new romantic.
L’arte totale degli alter-ego
Le performance hippy e lo studio del teatro a cavallo tra l’insuccesso dei primi singoli e la fama dei ‘70, è fondamentale nel delineare l’estetica e l’arte totale che accompagnerà la carriera di Bowie.
Partendo dall’esperienza teatral-musicale degli Art Labs – movimento nato nel 1968 nella capitale inglese che fa da apripista per molti laboratori artistici che sorgeranno in Europa sul finire del decennio, tra i quali figura il futuro ICA (Institute of Contemporary Arts) di Londra – di cui si fa promotore nella cittadina del Kent di Beckenham, Bowie porta sui palchi una serie di alter ego che, come un demiurgo, fa nascere e morire, più che per capriccio, come necessari portavoce del mutato clima culturale.
Sono un Pierrot. Uso me stesso come una tela, provando a dipingerci sopra la verità dei nostri tempi.
Come dichiarato in un’intervista al Daily Express nel 1976, “Sono un Pierrot. Sono un Everyman. Ciò che faccio è solo e soltanto teatro […] Uso me stesso come una tela, provando a dipingerci sopra la verità dei nostri tempi.”
Nel fare ciò si avvale della visione di sarti come Freddie Burretti, che veste Bowie di abiti ora azzurro ghiaccio per il video di Life On Mars? ora giallo mostarda, consegnato alla storia dalla camera di Terry O’Neil. È un altro maestro della fotografia britannica, Brian Duffy, ha esaltare l’importanza del make-up per Bowie nello scatto che poi diventerà l’intramontabile copertina di Aladdin Sane.
C’è poi la collaborazione con lo stilista Alexander McQueen, il cui cappotto con pattern Union Jack – una “anti-icona” secondo Bowie – diventa il protagonista di Earthling, album del 1997 tra i più visionari dell’artista, che nonostante i suoi cinquant’anni coglie l’urgenza di documentare il nuovo fenomeno della drum and bass.
Immancabile, poi, il costume da pierrot di Natasha Korniloff per il video di Ashes to Ashes del 1980, tributo ai mimi che tanto lo avevano affascinato negli anni ‘60, quando si faceva fotografare, ancora artista folk, con cerone bianco e lacrima nera sul volto.
Su tutti svetta la collaborazione con lo stilista giapponese Kansai Yamamoto, con i cui costumi Bowie affronta l’Aladdin Sane Tour del 1973, diventando così tra i primissimi artisti a esplicare il necessario legame tra musica e fashion design. Le creazioni di Yamamoto con le loro silhouette iperboliche e esagerate diventano le più adatte a rappresentare l’estravaganza glam e teatrale del Bowie-Aladdin Sane.
I costumi ispirati da quelli per il teatro Bauhaus fanno emergere l’importanza che il passato – dalla Scuola di Weimar alla commedia dell’arte, passando per le icone pop della gioventù – rappresenta per Bowie come prerogativa per inventare il presente.
Il mondo futuro nelle scenografie e nei dischi
Con Bowie la continua creazione e dissoluzione di nuove stagioni culturali passa inevitabilmente per le scenografie. Ci sono quelle urbane, asfissianti e distopiche pensate come riattualizzazione degli scenari Orwelliani di 1984 per il tour nord americano di Diamond Dogs (1974).
1980 Floor Show (1973)
Oppure la scacchiera umana per lo speciale televisivo 1980 Floor Show, in cui nell’autunno 1973 Bowie proietta la sua visione del futuro proponendo una cover di un brano di quasi dieci anni prima (Sorrow dei The McCoys), recitando, in un’atmosfera rarefatta e carica di tensione sessuale, frasi tratte da Alice nel Paese delle Meraviglie con la musa-regina della scacchiera Amanda Lear.
O, ancora, quelle dei film di cui Bowie è protagonista. Le scenografie aliene e estranianti di The Man Who Fell to Earth (1976) e quelle di Labyrinth (1980) di Jim Henson – il marionettista padre del Muppet Show – in cui viene reso omaggio alle architetture impossibili di Escher e Piranesi.
Sono anche, e soprattutto, le copertine dei dischi a restituire la visione dell’arte e della società contemporanea secondo Bowie. Ci sono i cyborg glam di Pin Ups (1973), truccati da Barbara Daly, con cui, almeno concettualmente, Bowie anticipa di anni la nascita del punk, e il Bowie zoomorfo mezzo uomo-mezzo cane di Diamond Dogs (1974) creato da celebre illustratore belga Guy Peellaert – già autore del fumetto Pravda e set designer dello storico night parigino Crazy Horse. Ma anche la pop art influenzata dall’esperienza degli Art Labs per la primissima copertina per il mercato statunitense di The Man Who Sold The World, illustrata da Michael J. Waller, così come la sua nuova veste in cui Bowie si fa ritrarre come un soggetto pre raffaelita in un abito dello stilista Mr Fish. Fino ad arrivare alle più recenti collaborazioni con lo studio di Jonathan Barnbrook che realizza l’artwork di The Next Day (2013), riprendendo e alterando, con grande ironia, la copertina dello storico Heroes.
È sempre Barnbrook a concepire la cover di Blackstar, l’unica priva del volto di Bowie nell’intera discografia dell’artista, canto del cigno e ultimo coup de theatre dell’ex Duca Bianco, uscito a sorpresa nel Gennaio 2016 in corrispondenza del suo sessantanovesimo compleanno e della sua imminente dipartita. Il packaging del disco è un gioiello di simbolismo, contente velati riferimenti alla condizione terminale di Bowie e, in base alla luce a cui viene esposto, capace di riflettere e svelare stelle e costellazioni.
L’eterno ritorno di Bowie
La pratica di Bowie di sacrificare i suoi molteplici alter-ego all’altare della cultura pop ha senza dubbio contribuito a renderli immortali, tanto che da decenni è la cultura pop stessa a nutrirsi delle intuizioni del musicista. Dalle collezioni di moda alle opere d’arte e di graphic design, l’impronta di Ziggy Stardust o del Duca Bianco è sempre dietro l’angolo, in un continuo pastiche di richiami postmoderni.
Si pensi a quando giusto due anni fa Achille Lauro si presentò sul palco del Festival di Sanremo in un abito Gucci che univa il Bowie di Life on Mars? a quello di Ziggy. Sotto la direzione creativa di Alessandro Michele, la casa di moda italiana, già aveva reso omaggio al nostro con una versione karaoke di Rebel Rebel interpretata, tra gli altri, dal cantautore Lucio Corsi e dell’attrice Miriam Leone per la campagna Gucci Cruise 2018 Roman Rhapsody.
O ancora, si pensi all’influenza su stilisti come Pam Hogg, Raf Simons (Dior SS15), Jean Paul Gaultier (SS13), Miuccia Prada (Miu Miu AW12), e John Galliano (Maison Margiela SS16) per citarne alcuni.
A sei anni di distanza dalla scomparsa di Bowie, forse è proprio la sua pioneristica estetica androgina il lascito più grande, ennesima dimostrazione della capacità dell’“Uomo che cadde sulla Terra” di anticipare svolte culturali e trend generazionali.
Immagine di apertura: Fotografia di Justin De Villeneuve per la copertina dell’album Pin Ups, 1973. Courtesy David Bowie Archive