Una delle migliori architetture costruite in Italia dall’inizio del millennio ha visto la luce anche grazie al parere decisivo di Kenneth Frampton. Nel 2006, infatti, era proprio lui a presiedere la giuria – di cui facevano parte, tra gli altri, anche Henri Ciriani e Angelo Mangiarotti – che selezionò il progetto per quella che era al tempo la nuova sede dell’Università Bocconi a Milano. Nel 2009, l’edificio rientrò tra i finalisti del Mies van der Rohe Award, portando alla ribalta sulla scena internazionale un duo di progettiste irlandesi, la cui notorietà era stata fino a quel momento tutto sommato limitata: Yvonne Farrell e Shelley McNamara, di Grafton Architects.
Da allora, la Bocconi è stata oggetto di lodi da parte della critica e Grafton Architects hanno proseguito la loro ascesa verso l’empireo dell’architettura mondiale, fino a essere nominate curatrici dell’ormai imminente 16. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia. Per decisione loro e del Presidente Paolo Baratta, il 26 maggio di quest’anno il consueto Leone d’Oro sarà attribuito proprio a Kenneth Frampton, un “maestro” (Baratta) “di straordinaria intuizione e intelligenza, combinata con un senso d’integrità unico” (Grafton Architects).
Nato nel 1930 a Working, nel Surrey, studiò all’Architectural Association di Londra e si trasferì negli Stati Uniti negli anni ’60. Nel 2017 Jon Michael Schwarting, introducendo un intervento di Kenneth Frampton al New York Institute of Technology, ne ha paragonato l’impatto sull’ambiente della critica architettonica americana a quello che la così detta British Invasion ebbe all’epoca sulla musica, la moda e la letteratura del Nuovo Mondo. Iperboli a parte, il curriculum di Frampton non manca certo dello “spessore” necessario per essere candidato a un premio prestigioso come il leone veneziano.
Le comunicazioni ufficiali della Biennale, l’autorevolezza open-source di Wikipedia e la biografia che lo presenta in apertura dell’edizione più recente del suo libro Modern Architecture. A Critical History lo descrivono al tempo stesso come un architetto professionista, uno storico e un critico dell’architettura. Certamente, è in questi ultimi due ambiti che ha profuso la maggior parte delle sue energie, e da essi gli deriva il riconoscimento di cui gode.
Almeno due delle sue opere sono un must-read per ogni architetto o cultore della disciplina: oltre alla fondamentale storia dell’architettura moderna appena citata – la cui prima edizione risale al 1980 – vale la pena di citare anche Towards a Critical Regionalism: Six Points for an Architecture of Resistance. Questo saggio del 1983, dato alle stampe in un frangente delicato, mentre era in atto una revisione delle stesse categorie critiche sull’architettura, conseguenza della definitiva caduta dei dogmi moderni, consacrò la centralità nel dibattito mondiale del “regionalismo critico”, formula coniata pochi anni prima da Alezander Tzonis e Liane Lefaivre. Ben al di là del momento topico dei primi anni ‘80, Frampton è stato in grado di mantenere una posizione di assoluta rilevanza nella costruzione dei discorsi sull’architettura in un intervallo di tempo molto più ampio: dagli anni ’70, quando partecipò alla fondazione della rivista Oppositions – nata nel 1973 in seno all’Institute for Architecture and Urban Studies, diretto da Peter Eisenman a New York – attraverso gli anni ’90 – nel 1995 pubblica Studies in Tectonic Culture. The Poetics of Construction in Nineteenth and Twentieth Century Culture, che riporta l’attenzione sulla costruzione come la vera essenza dell’architettura – e fino ad oggi – del 2014 è A Genealogy of Modern Architecture: Comparative Critical Analysis of Built Form.
Stiamo assistendo alla progressiva scomparsa della critica in molti ambiti della società contemporanea. Cosa ne è stato della funzione della critica architettonica?
Il suo impegno è stato costante anche nell’ambito dell’insegnamento dell’architettura. Il suo percorso accademico si è svolto nei migliori atenei europei e americani: dal 1972, è Ware Professor presso la Graduate School of Architecture, Planning and Preservation della Columbia University di New York, ma ha insegnato anche alla Princeton University School of Architecture, al Royal College of Art di Londra, all’ETH di Zurigo, al Berlage Institute di Amsterdam, all’EPFL di Losanna e all’Accademia di Architettura di Mendrisio.
In tutta la sua lunghissima carriera, Kenneth Frampton ha continuamente sottoposto a interrogazione tanto l’architettura quando la stessa critica dell’architettura. Così, naturalmente, non è rimasto insensibile di fronte alla condizione di crisi di quest’ultima disciplina, messa in luce da molti nell’ultimo decennio – si pensi, ad esempio, all’antologia degli scritti di Martin Pawley, del 2007, intitolata The Strange Death of Architectural Criticism. Lo stesso Frampton scrive, nel 2009: “Stiamo assistendo alla progressiva scomparsa della critica in molti ambiti della società contemporanea (…). Cosa ne è stato della funzione della critica architettonica?”.
Attraverso condizioni favorevoli o avverse, l’opinione autorevole di Kenneth Frampton resta per l’architettura contemporanea un prezioso elemento di continuità, orientamento e autoconsapevolezza. Nelle parole di Grafton Architects, “si distingue come la voce della verità, nella promozione dei valori chiave dell’architettura e del suo ruolo nella società”.