Stefano Casciani: Vedo molta arte prodotta da autori giovani e meno giovani, ma le tue opere mi colpiscono in modo particolare. Per questo ho pensato di dedicarti la copertina di Domus: è l'ultima legata alle mie interviste e volevo presentare anche degli artisti giovani, capaci di proporre una prospettiva diversa. Com'è nata la mostra da Giò Marconi, quella dove ho visto per la prima volta i tuoi video?
Nathalie Djurberg: È successo grazie a Caroline Corbetta, che aveva curato una mostra alla Biennale dei Paesi Scandinavi in Norvegia, nel 2004. Caroline aveva visto lì il nostro lavoro e le era piaciuto molto: ha poi pensato a una mostra da Marconi e ha convinto Giò a realizzarla.
Allora mi hanno impressionato molto i due video con la Tigre e il Lupo, con i due personaggi femminili collegati a loro.
ND: Sono state le prime opere di quel genere, con le musiche di Hans, poi le cose hanno continuato a funzionare. Non abbiamo avuto altre mostre da Marconi fino a quella dell'estate scorsa, ovviamente la gente si aspettava altre opere di quel tipo. A volte, vedere che da te si aspettano qualcosa di spettacolare mi irrita: se non è quello che vuoi fare, devi essere abbastanza forte da affermare che non intendi produrre niente di spettacolare.
Eppure la mostra alla Fondazione Prada era proprio spettacolare: era diversa, le vostre opere si stavano spostando verso una nuova dimensione, una sorta di DVD a tre dimensioni. C'è voluto un sacco di lavoro, immagino.
ND: Eccome! In realtà, penso che, se Germano Celant non mi avesse spinta con tanta insistenza (e se non fossi stata troppo timida per sapere che è possibile anche dire di no), non l'avrei fatta! Ma lui insisteva, e io ero terrorizzata. Avevo paura, non sapevo cosa fare: per certi versi non volevo farla, ma mi piaceva che neanche Germano giocasse sul sicuro. Ti costringe a spingerti oltre quel limite, a rischiare di fare qualcos'altro, ci vuole un bel po' prima di incontrare qualcuno così… Germano mi ha veramente insegnato a fidarmi di quello che voglio fare, e il passo decisivo, finale, è stato entrare nella mia mostra e provare piacere.
Hans Berg: Una cosa importante da sottolineare è che fai tutto il lavoro da sola, anche dopo tutta la pubblicità che è derivata dalle tue mostre. Non è come aver messo in piedi una grande società di produzione, con gente che lavora per tuo conto. Fai ancora tutto da sola, nella nostra casa-studio.
ND: Non con la mostra di Prada, non ho fatto tutto da sola.
HB: Hai fatto tutti i modelli.
ND: Per Venezia ho fatto tutto da sola, a casa, ma stavo per dare i numeri!
Quanto ci hai lavorato?
ND: Un anno per i film e le sculture, e in un appartamento decisamente troppo piccolo, circa 70 metri quadri. C'erano enormi fiori dappertutto e Hans era sul punto di piantarmi e traslocare da qualche altra parte. Ora sto finendo di spedire le sculture che vanno negli Stati Uniti per una mostra al Walker Art Center di Minneapolis, ma fino a ieri per accedere al suo angolo di lavoro, qui in studio, lui aveva solo una striscia strettissima. Se però affidi la produzione ad altri, puoi scordarti di seguire il lavoro… mentre, per me, la cosa più importante è poter realizzare le opere da sola. Quando cominci un lavoro, non sai veramente dove andrà a finire. Hai un'idea, all'inizio pensi sempre che sia un'idea chiara, ma appena cominci a lavorarci, incappi in aspetti difficili, devi fare dei cambiamenti: poi evolve da sola nel tempo, ed è molto interessante non avere una cosa così statica. Se la lasci fare ad altri, quello che ottieni è un lavoro già finito, e non hai imparato niente. Questo, invece, è l'aspetto che a me interessa di più: seguire, capire dove va il lavoro.
Non siamo due, noi siamo uno
Magia e progetto, fama e oscurità, tecnica e fantasia, raccontate da Nathalie Djurberg e Hans Berg.
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- Stefano Casciani
- 23 febbraio 2011
- Stoccolma
Qual è la cosa più chiara che hai in mente quando inizi un nuovo lavoro? È la storia, il personaggio, l'azione, l'ambiente?
ND: A volte è il personaggio, a volte la storia, devo sempre avere un pezzetto del racconto. Sarebbe noioso avere tutto chiaro in mente fin dall'inizio: vorrebbe dire che, mentalmente, ho già visto l'animazione e conosco ogni fotogramma e ogni angolo della telecamera.
La cosa più interessante è quando parti con una base minima e, poi, durante l'animazione le cose prendono un aspetto diverso, i personaggi cambiano: c'è un'evoluzione. È una sorta di estetica del frammento: ogni scelta che fai, anche piccola, è solo un frammento e può andare dove vuole. Così, devi decidere in continuazione dove vanno la storia, le situazioni. E tanto più mi interessa il personaggio, più è divertente lavorarci, e tanto migliore diventa il lavoro.
C'è qualche personaggio che ti piace in particolare?
ND: Il Lupo!
Quello del video We are not two, we are one?
Sei tu?
ND: No, rappresenta l'ultimo uomo con il quale potrei mai stare... La gente non è così: mi piacciono persone che non siano così dure. E sto guardando Hans mentre te lo dico!
Ho guardato il tuo lavoro molto attentamente e mi chiedo chi sia più strano: gli uomini, le donne…
ND: Nel mio lavoro o nel mondo? All'inizio, quando ho cominciato, il lavoro riguardava solo le donne. Facevo solo donne, e avevano tutte delle grandi tette: non mi somigliavano di certo, ed erano molto femminili. Dopo un po', sono diventate più fragili: penso sia successo perché io stavo diventando più sicura di me stessa e avevo il coraggio di farle più fragili.
Non mi interessava per niente rappresentare l'uomo. Non trovavo un legame. Ho avuto bisogno di un paio d'anni per poter ritrarre gli uomini e così è arrivato il Lupo. Poi scopri una maniera di fare altro: vedi che si schiude qualcosa dentro di te, nella tua testa, che ti permette di continuare. All'inizio, gli uomini comparivano nelle mie animazioni solo con un ruolo di sopraffazione, di offesa. Dopo averci lavorato per un po', sono diventati più interessanti, più ambivalenti: voglio vedere dove vanno a finire i protagonisti dei miei lavori e quello che ho il coraggio di fare.
Cos'è che ti rende felice, soddisfatta o entusiasta riguardo a un progetto?
ND: Quando non gioco sul sicuro. Quando faccio qualcosa e ho un po' di paura, quando sento che sto camminando su un filo e non so esattamente quello che sto facendo, ma sto veramente cercando qualcosa che m'interessa a fondo: che devo trovare a tutti i costi e che cerco veramente di scovare. Sento che, se rimango su un terreno saldo e faccio quello so già, allora non c'è stimolo. Quando faccio qualcosa su cui non ho certezza, ecco, lì si accende tutto il mio interesse. Penso si tratti della cosa che mi dà più gioia. E poi in quella fase, mentre lavori, cominciano a piacerti altri artisti che, prima, non ti piacevano; magari fai delle ricerche perché ti serve vedere qualcosa di simile a quello che stai facendo. A volte, è molto frustrante, perché nessuno ha fatto quello che vorresti vedere.
Come vi siete conosciuti?
ND: Grazie a un'amica.
HB: Mi sono trasferito a Berlino per studiare tedesco e lavorare alla mia musica. Alla scuola di lingue ho incontrato questa pazza svedese sua amica, e abbiamo deciso di condividere un appartamento. Poi anche Nathalie si è trasferita a Berlino, perché non le piaceva molto la città in cui viveva in Svezia e l'ho incontrata così: per caso.
Nathalie, dove vivevi?
ND: A Malmö, ma sono cresciuta in un villaggio sul mare. Hans, invece, è cresciuto in un posto ancora più piccolo: dieci case nella foresta.
Ci sono altre persone che lavorano ai tuoi progetti?
ND: No, penso sia per via della mia 'avarizia', la mia difficoltà a condividere il lavoro. Ho problemi a collaborare, non so parlar chiaro, non esprimo le mie opinioni, anche se può sembrarti che lo faccia. Con Hans non ce n'è bisogno: pensiamo esattamente nello stesso modo e lavoriamo insieme da così tanto tempo che non parliamo quasi mai di collaborazione. Lui sa che musica ci vuole e, nei pochi casi in cui non succede, mi arrabbio, perché penso che dovrebbe capire senza alcuna spiegazione.
Qual è il rapporto tra musica e opera d'arte?
HB: Dato che lavoriamo a stretto contatto su tutto, è come se tutto avvenisse nella stessa stanza. C'è sempre una discussione sul lavoro e su quello che deve accadere nei film, su ciò di cui trattano. Ma non diciamo mai esattamente quello che succederà. Oppure ne parliamo usando temi più ampi.
ND: È una cosa molto vaga. Io chiedo di essere rassicurata nel lavoro, magari sto cercando qualcosa e Hans mi chiede che cosa sto cercando. A volte, cerco un colore, ma non sono del tutto sicura: così la discussione va avanti, ma in un modo molto astratto.
HB: Sì, lei poi fa un film e parliamo tutto il tempo del colore. Allora provo a lavorare alla musica su quel livello. Mentre, se è una cosa più comica o riguarda più da vicino forme di abuso, provo a interpretarla diversamente, in modo da far diventare la musica l'ultimo strato dell'intero lavoro. Qualcosa che possa anche guidare lo spettatore.
ND: Anche se, a volte, la musica di Hans può venir vista come un elemento secondario, agisce sullo spettatore più di quanto si possa immaginare. La gente non comprende quanto sia importante e guarda le immagini, poi…
HB: La cosa più bella, anche in un film normale, è quando non fai caso alla musica, mentre, senza che te ne accorgi, è proprio questa a costruire l'atmosfera e lo stato d'animo.
ND: Se guardi un mio lavoro e, poi, togli la musica, allora capisci quanto contribuisca.
HB: Quando vedi un'opera e la filtri con lo sguardo, provi a interpretarla: ma quando la musica funziona, l'opera che stai vedendo passa questa sorta di filtro e ti entra direttamente in testa.
Sapevate già quello che volevate fare quando eravate alla scuola d'arte?
ND: Per niente. Io ho cominciato con la scultura, poi volevo dipingere, ma non ero brava: torno, comunque, continuamente a dipingere.
Ci sono altri artisti nella tua famiglia?
ND: Direi di no. Due miei fratelli sono in India, alla ricerca spirituale di se stessi… Mio padre è medico, ma con lui non ho contatti. Mia madre sì, è una persona creativa, ma non un'artista: faceva l'insegnante, ma adesso è in pensione.
Parli ancora con lei?
ND: Tanto. Quand'ero piccola, non c'era molto in casa: non avevamo la televisione, perciò lei disegnava e dipingeva con noi. E ci leggeva libri con storie e favole. Il lato creativo era che, se ti annoiavi, potevi fare un disegno o una scultura di carta. Eravamo soli per la maggior parte del tempo.
HB: Penso non sia sempre così. Molti bambini non hanno la televisione, ma non per questo restano creativi. Tu, però, sei rimasta su un percorso creativo.
ND: Sì, ma sono sempre stata incoraggiata. Hans, invece, non è mai stato incentivato a fare musica.
HB: Ma l'ho fatta lo stesso!
Hans, i tuoi genitori che cosa volevano che facessi?
HB: Per la verità non mi dicevano nulla. Mio padre lavorava nei boschi e mia madre era casalinga. Non facevano niente di speciale.
Non c'era musica?
HB: No, mia mamma suonava un po' il violino, ma non sul serio. A mio padre la musica non piace.
Dev'essere l'unica persona al mondo!
ND: La odia, ma il fratello di Hans è pianista e fa concerti. La prima esperienza di Hans con la musica è stata piazzare due registratori uno vicino all'altro e registrare, mescolando la musica di una cassetta con l'altra.
Nathalie, il cognome di Hans, Berg, fa parte del tuo cognome, Djur-berg. Che cosa vuol dire?
ND: Sembra abbastanza incestuoso, anche perché mio padre si chiama Hans Djurberg e lui Hans Berg. All'inizio, mia madre non voleva chiamarlo per nome. E, in realtà, io somiglio a mio padre: mia madre è più bella.
Che cosa vuol dire per voi – due artisti molto giovani – fare già parte della grande scena dell'arte, aver vinto un premio alla Biennale di Venezia dopo la personale alla Fondazione Prada e fare, quest'anno, un'altra personale al mitico Walker Art Center?
ND: Quando non siamo via per una mostra, stiamo sempre in studio. Uno dei miei propositi per il nuovo anno, quindi, è fare più vita sociale. Come vedi, far parte della scena internazionale, non vuol dire niente. In termini pratici, significa che la gente compra le tue opere e questo ti procura i soldi per continuare a fare quello che fai. Un vantaggio c'è: l'appartamento, che abitavamo un anno e mezzo fa, era la metà di questo e facevo, comunque, tutto il lavoro in casa. Da questo punto di vista, le cose sono cambiate. Penso, però, che sia necessario dimenticare le pressioni della 'carriera' e dove si è arrivati nel mondo dell'arte: prima o poi, la gente smette di interessarsi al tuo lavoro. Se sei in qualche modo attaccato al successo, questo può distruggerti. Supponiamo che, tra un paio d'anni, il nostro lavoro non piaccia più (speriamo di no!): ma se succede, allora dovremo renderci conto che non ha importanza, perché quello che conta veramente è il lavoro in studio.
Prima hai detto che guardi anche al lavoro di altri artisti. C'è qualcuno, in particolare, a cui fai riferimento?
ND: Fin da giovane mi ha attirato molto il lavoro di quell'artista, che si è fatto sparare in un braccio... come si chiama? Chris Burden. Mi piace molto il suo lavoro. Un altro artista che mi interessa in questo momento è Morris Louis, l'astrattista americano. Proprio adesso, qui a Berlino, al Deutsche Guggenheim, c'è una mostra con un suo quadro. Ci sono stata tre volte e non guardo gli altri dipinti: solo il suo. È come essere in acido o qualcosa del genere. Straordinario. A volte, mi preoccupo pensando che l'arte non sia la strada giusta da seguire, che l'arte sia inutile o solo una forma di autocompiacimento: ma quando vado lì e vedo questo quadro, penso che, invece, ne vale la pena davvero, anche solo per il fatto di esserci di fronte… Louis ha dipinto tutta la vita, probabilmente è l'unica cosa che ha fatto: probabilmente non ha fatto nient'altro per l'umanità, ma ne valeva la pena, anche se io fossi l'unica persona ad ammirare il suo lavoro. Ovviamente il suo lavoro piace a moltissima gente, perciò io non rappresento un caso speciale. Quello che intendo dire è che vale la pena di lavorare un'intera vita a qualcosa, anche se dovesse beneficiarne una persona sola.
Per progettare il tuo lavoro nel modo in cui lo fai, ho l'impressione che sia necessaria molta concentrazione. Non è un compito facile, non si tratta delle solite trovate dell'arte contemporanea, quando gli artisti sono lì solo per promuoversi e qualcun altro fa tutto al loro posto.
ND: È veramente triste!
È triste ma, per quanto a me non piaccia affatto, ha un suo significato. Per questo penso sia importante vedere lavori come il tuo che sa anche divertire. Penso che al pubblico possa piacere questo tipo di ricerca.
ND: Ma è importante? Non è possibile fare qualcosa di meglio nella vita che dell'arte?
Allora devi fare qualcosa per una causa sociale, oppure regalare il tuo lavoro, non so. Ci sono artisti ai quali piace fare cose del genere, che lavorano così: un modo che, a volte, è interessante, a volte no.
ND: Quando penso a queste cose, torno al fatto che l'arte occupa tutto il mio spazio, ma non posso parlare per gli altri, solo per me stessa. È qui che Hans entra in scena, perché lui riesce a vedere l'arte per il mondo, io non ci riesco…
Una curiosità, che cosa fai delle opere che usi nei tuoi film?
ND: Vuoi dire i pupazzi e quel tipo di cose? All'inizio buttavo via tutto, e butto ancora tutto il set. Ma una collezionista tedesca è venuta una volta in studio: c'erano tre pupazzi che le piacevano molto, così li ho messi in una teca di vetro e lei li ha comprati. Da allora, alcuni pupazzi funzionano come sculture. Germano Celant ne ha uno che fa parte di un film d'animazione intitolato Putting down the prey. Si tratta di una donna che uccide un tricheco, gli apre il ventre e vi si infila. Celant ha il tricheco, e la donna è ancora nel suo stomaco ricucito. Nel frattempo si è bagnato e, forse, adesso è ammuffito, ma mi piace l'idea che lei sia ancora dentro, che sia sulla scrivania di Germano, e che non debba essere nulla di più importante di così. Quindi, a volte li tengo, ma nella maggior parte dei casi li butto, oppure, se possibile, li riutilizzo. Spesso, dopo l'animazione non hanno più motivo di essere e di sopravvivere.
Tutto questo non va contro il concetto di collezionismo? L'arte implica il collezionare e questo atteggiamento mi pare sia contrario…
ND: No, non mi piace collezionare, personalmente non colleziono nulla. Certo, ho dei libri, ma spesso anche questo mi fa arrabbiare. Ne ho troppi e li regalo: ma non credo che comprerei mai un'opera d'arte. Non mi piacciono le cose costose che non mi divertono, ma sono molto contenta che divertano altre persone, perché se le comprano, allora, posso continuare a lavorare.
Se raduni tutti i materiali che hai usato nei tuoi video, puoi mettere su un piccolo museo…
ND: Probabilmente mi piacerebbe visitare un museo del genere… ma, a volte, vai a casa di qualche collezionista, vedi il lavoro esposto nella sua casa, resti di sasso e sei proprio contento che lo abbiano comprato e di aver avuto l'opportunità di vederlo. Penso, però, che intorno a dove lavoro deve esserci spazio. Non posso collezionare niente. È un processo, e hai bisogno di liberarti di alcune cose per seguirlo, altrimenti rimani bloccato dalle vecchie cose e continui a rifarle. Non mi piace ripetere sempre la stessa cosa.
È molto complicato costruire le tue opere?
ND: Talvolta. Vuoi che ti faccia vedere? Prendo qualcosa. Adesso è possibile anche comprare materiale da Internet per lo scheletro da usare nell'animazione, anche se c'è solo una misura. Questi materiali sono molto cari e non funzionano con i pupazzi. Questo è lo scheletro e queste le dita.
Hai fatto tu il pupazzo della ragazza nera?
ND: Questo sì: è veramente grande, di solito sono più piccoli. Adesso non c'è la bocca, ma può muovere gli occhi. Può muovere tutto, non è ancora rotto e lo sto tenendo per usarlo in qualche altro lavoro. Faccio tutte queste bocche diverse da usare.
Servono per scene ed espressioni differenti?
ND: Sì, ho denti e altra roba del genere. Se ho bisogno che sorrida, cambio la bocca, faccio una foto e poi la cambio di nuovo.
Qual è il materiale di base?
ND: Prima di tutto filo metallico, poi plastilina, ma anche silicone.
HB: Pelle di silicone.
ND: Si spaccano però e non sono per niente perfetti. Lo sarebbero se li facessi fare a qualcuno ma, come ho già detto, non mi piace l'idea.
HB: Ma sono perfetti per te, perciò in questo senso sono perfetti!
Da dove vengono i tuoi personaggi?
ND: Di solito si tratta di stereotipi, o derivano dall'idea di qualcosa che mi piace o che detesto... Così arrivo alla questione di cosa sia un'idea. Un'idea è ciò che vedi, quello che leggi, oppure è altro? All'inizio pensavo che avrei realizzato questi personaggi e le animazioni come una sorta di metodo per far fronte alla realtà, per rendermela chiara, e per certi aspetti credo che le cose stiano ancora così, ma forse con una maggiore consapevolezza. Aiuto! (sorride ad Hans)
HB: Derivano dalle tue esperienze. Penso che i personaggi rappresentino la tua interpretazione delle tue esperienze: interpretano tutto questo al posto tuo.
La mia impressione è che i personaggi non siano proprio così comuni, hanno un grado di immaginazione molto elevato, piuttosto raro da trovare nell'arte. Astrattismo a parte, l'arte oggi è figurativa all'80%, anche se in modo molto concettuale. Il tuo lavoro, invece, è figurativo, ma racconta una storia, con la differenza che i personaggi sono di fantasia. Per questo ho domandato da dove vengono le idee, perché l'idea dei personaggi è già in parte l'opera…
ND: È interessante e torno sempre a pensarci. Se mi piace il personaggio, diventa una specie di ossessione. Quando lavori all'animazione, devi impersonare tutti i ruoli e ciò significa che, prima di tutto, devi sapere come muovere il tuo corpo, quindi devi saper controllare il corpo e sapere cosa si prova a muoverlo in quel modo. A volte, quando lavoro all'animazione, provo le espressioni della faccia (con Hans che mi prende in giro, ed è il motivo per cui gli vieto di entrare quando faccio quel tipo di lavoro). Se sai quali muscoli della faccia si piegano e tirano, allora puoi farlo anche con un pupazzo. E se mostro una danza, devo sapere che cosa si prova a ballare così, lanciando le braccia… ma significa anche che le cose succedono su un piano emotivo: reciti il ruolo di cui stai facendo l'animazione, perché sai quel che si prova a livello fisico. Provi le stesse sensazioni del protagonista, e se il protagonista fa una cosa orribile, o qualcosa di carino, o mostruoso, o di natura sessuale, devi essere pronto a immergerti in quella situazione.
C'è una certa mostruosità nel tuo lavoro: per la verità certi personaggi fanno proprio paura…
ND: Sì, ma non sto parlando delle azioni, perché sono atti orribili, per i quali non potrei certo provare piacere. Ma se c'è un personaggio orribile o mostruoso, devi imparare a sentire un po' di compassione, proprio perché lo stai impersonando. C'è, per esempio, qualcosa di molto bello nell'essere impacciati.
Mi capita spesso di sognare i personaggi, ma non mi piace, preferisco che il lavoro rimanga nello studio. Preferisco sognare altro, altrimenti il lavoro diventa troppo incestuoso. Te lo sogni la notte, ci lavori durante il giorno, non ne esci mai. Diventa una sorta di psicosi, e io tento di uscirne.
HB: Dopo un po', diventa difficile tenere separata l'idea dal sogno, ma forse sono la stessa cosa...
ND: No, non ho problemi a tenerle separate. Mi piacciono molto l'ordine e l'organizzazione. Col mio lavoro devo essere molto ben organizzata. Il tutto può sembrare caotico, ma non lo è affatto.
Il fatto che i tuoi video e le tue composizioni devono essere così brevi rappresenta un limite?
ND: No, probabilmente perché, dopo un po', perdo interesse e non sento alcun bisogno di continuare. In più, se fai qualcosa di molto lungo, come un filmato che dura un'ora, devi lavorare a una parte iniziale, una centrale e a quella finale. Il che non mi interessa, perché non è che mi attiri risolvere dei problemi. Forse, mi interessa di più trovare il problema. Non ho soluzioni per niente, perciò non ha proprio senso prolungare la durata del lavoro. Quello che farò quest'estate (in realtà, sono sei anni che lo prometto a Hans) saranno invece delle immagini per la sua musica, che potrà usare a piacimento perché saranno sue. Io uso la sua musica quando voglio, ma lui non può fare la stessa cosa coi miei film: per questo creerò dei lavori apposta per lui. Saranno immagini bidimensionali. Non le farò usando la plastilina, sarà una cosa più astratta, il che mi entusiasma. Sarà un lavoro lungo, anche perché non c'è di mezzo una storia: lo vedo e lo sento come fare dei dipinti. Mi piace il fatto che possano essere mostrati, da qualche parte, a gente non particolarmente interessata all'arte. Sarà come un commento visivo alla musica.
Stai pensando a una specie di spettacolo dal vivo con la musica?
ND: Sì, questa è l'idea. È un progetto molto eccitante, ma prima devo finire dell'altro lavoro.
HB: Sì, ci vorrà tempo, perché si tratta di un sacco di lavoro.
ND: Sarà divertente, ed è una cosa che mi interessa perché la gente non verrà allo spettacolo per l'arte o per la componente visiva, ma per la musica. Poi però, come supplemento, avranno anche l'aspetto visivo e, forse, ciò renderà tutto più interessante.
Vai mai alle gallerie che espongono il tuo lavoro?
Ti piace vedere il tuo lavoro in mostra?
ND: No. Certo, se qualcuno dice bene del mio lavoro, è fantastico, ma ovviamente ho anche paura che non piaccia: così preferisco non andare alle mie mostre. Quando sono in galleria e qualcuno guarda le mie opere, provo imbarazzo. Cerco sempre di uscire.
Come ti tieni in contatto col tuo lavoro una volta che l'hai completato?
ND: Talvolta facciamo una mostra, usiamo vecchi lavori e li assembliamo in modo diverso. Per il resto non mi capita spesso di rivedere le opere finite. Hans ascolta la musica, e piace anche a me, ma non riesco a guardare i lavori già usati se proprio non ce n'è bisogno.
HB: Io riutilizzo la musica. Per i concerti dal vivo la prendo e rifaccio il mixaggio. Faccio spesso questo lavoro di mescolare i pezzi, quindi riascolto molto la mia musica.
Nathalie, nei tuoi lavori recenti non mostri tanti interni. Agli inizi, invece comparivano degli spazi domestici. Non t'interessa più l'intimità della casa?
ND: In effetti i miei ultimi film sono molto astratti, con i personaggi isolati su una campitura di colore, ma mi piacciono gli interni, lavorare con gli interni allo stesso modo in cui lavoro con i personaggi. Però, se i personaggi sono nudi, isolati, non rientrano in una categoria: se invece li vesti, diventano subito borghesi o aristocratici. Quando vesti qualcuno, è difficile non etichettarlo. Credo che la stessa cosa accada quando lavori con gli interni: così quando troverò ancora la stanza adatta, tornerò a quella maniera di lavorare, ma solo dopo aver investigato le campiture di colore e le altre cose.
HB: Quando hai uno sfondo più astratto, un campo di colore, la storia diventa più intima: più inserisci i personaggi in uno spazio sociale, più sociale diventa tutta la storia. Se poi li metti in un ambiente veramente specifico, come una cucina, con il Lupo…
ND: Tutto diventa molto limitato, ma nel lavoro tutto si muove, avanti e indietro. Le idee vanno, tornano, poi vanno via di nuovo: e mi hanno davvero interessato quelle stanze pesanti, quei luoghi scuri, con il mobilio ingombrante, che creano l'effetto di un buco che ti attrae, come se entrassi in una caverna.
Tutti noi, uomini e donne, veniamo dalle caverne…