Questo articolo è apparso originariamente su Domus 1054, novembre 2021.
“Nei musei c’è sovraffollamento, la quantità ammazza la qualità e i capolavori esposti a dozzine non sono più capolavori. Come si fa a contemplare un Murillo quando accanto c’è un Tiepolo che vuole la sua parte e, poco più in là, altri 30 dipinti gridano: guardami, guardami!”. Rompo il ghiaccio con Rafael Jablonka con una doppia perfidia: il Diario di Witold Gombrowicz (da cui pesco la citazione) è il libro che gli ha cambiato la vita e in questi giorni la sua sterminata collezione in cui sfilano Mike Kelley, Eric Fischl, Miquel Barceló, Philip Taaffe e molti altri è in mostra all’Albertina di Vienna (fino all’11.4.2021) “Aveva ragione Gombrowicz, non si può mettere in una stanza artisti così diversi. Per evitare errori, all’Albertina ho dedicato a ciascun artista una stanza autonoma. Certo, incorrerei comunque nelle furie del protagonista di Antichi Maestri di Thomas Bernhard che trascorre 30 anni della sua vita, un giorno sì e l’altro no, a contemplare solo ed esclusivamente un quadro di Tintoretto”.
Rafael Jablonka cresce all’inizio degli anni Cinquanta in Polonia a Czestochowa, un paesino reazionario noto per la Madonna Nera, da cui fugge per intraprendere gli studi universitari d’Ingegneria civile a Cracovia, che negli anni Settanta resiste alla nebbia comunista grazie a una movida culturale segnata dalla presenza di Andrzej Wajda, Wislawa Szymborska e Tadeusz Kantor. “Che noia l’ingegneria civile. Già m’immaginavo una vita perenne in ufficio. Inizio a incuriosirmi di arte e, per colmare la mia totale ignoranza, mi immergo in un manuale di avanguardia sovietica, scopro Malevich, il Costruttivismo russo fino ad arrivare al movimento Fluxus. In modo rocambolesco, riesco ad approdare in Germania, dove organizzando qualche mostra finisco per conoscere Beuys, Richter, Baselitz e Schütte”.
Dopo una breve parentesi a Monaco di Baviera e Düsseldorf, alla metà degli anni Ottanta Jablonka mette radici a Colonia. Intuisce il potenziale di artisti americani sottovalutati in Europa, smette le vesti del curatore per indossare quelle del mercante d’arte. Nel 1988 inaugura la sua galleria, 30 anni di scoperte e di successi. La sua casa di Cracovia è un omaggio agli artisti del cui percorso è stato complice.
Mi accomodo in salotto su una poltrona di Charles Eames, affiancata da vasi di Shiro Tsujimura e da un mobile di Ilmari Tapiovaara e mi soffermo su un Quadro Vesuviano di Philip Taaffe: “Quello che adoro di Philip è che ti fa avvertire un senso del mistero, una presenza mistica. Per la Böhm Chapel gli ho commissionato cinque grandi opere, una per ciascuna religione: cristiana, ebraica, musulmana, induista e buddista. Mi ha consegnato la prima, ma procede a rilento. Secondo me, teme che finisca come il Requiem di Mozart”. Sorride Jablonka, indicandomi un suo recente ritratto: “Non poteva che essere del mio amico Eric Fischl. Una devozione infinita per la pittura e valori etici inespugnabili. Se gli commissiono un quadro ad hoc per una fiera, si rifiuta e aggiunge: fallo fare a qualcun altro”.
Riconosco subito le ceramiche di Barceló, in particolare La moltiplicazione dei pani e dei pesci e l’autoritratto androgino di Francesco Clemente. C’è spazio anche per la fotografia: Samuel Beckett, Buster Keaton e John Ford immortalati da Richard Avedon. Devo assolutamente vedere la biblioteca. Chiedo a Jablonka di quali libri non potrebbe fare a meno: “I primi di Araki, A Goldbook di Warhol degli anni Cinquanta, Why I went to the movies di Richard Prince, Rothko’s Chapel di Mike Kelley e tutto Baselitz”. Faccio ancora in tempo a notare un ritratto di Gianni e Marella Agnelli di Andy Warhol. “I colori sono la cosa che amo di più. È quello che ho sempre detto a Mike Kelley. A lui non è mai piaciuto”.
Immagine in apertura: la music room con i quadri di Andy Warhol e la fotografia di Albert Watson. I vasi a terra sono di Shiro Tsujimura; le poltrone di Charles e Ray Eames; la lampada è di Ilmari Tapiovaara. Foto Jacek Świderski, Mirosław Żak