Nel principio (del design), c’era il mito del progresso. Poi, alla soglia del XXI secolo, l’innovazione. E oggi, quale è l’idea che illumina il nostro futuro? Forse il principio dell’aumento, del powering, o addirittura del superpowering? Aumentare le potenzialità fisiche e le performance dei corpi, la durata della vita, la rapidità dei processi cognitivi, l’estensione della circolazione delle informazioni, l’interattività e l’interconnessione degli oggetti?
Nell’epoca della robotica sociale e dell’intelligenza artificiale, la pulsione che motiva il design (e la società) è forse quella di trasformare l’uomo in superuomo? Magari proprio per stare alla pari delle tecnologie non solo in continua ma sempre di più in concorrenza.
Il paradosso è evidente: se molti, guardando alla crisi ecologica che proprio gli ideali di progresso e innovazione hanno provocato, invitano alla decrescita, alle politiche della riparazione, del re- o up-cycling, altri, difendendo un principio di produttività e d’incremento tecnologico e industriale inesorabile, spingono non solo per un’ulteriore crescita, ma per una radicale riconfigurazione delle condizioni materiali dell’umano. Una riconfigurazione che investe anche lo stesso corpo, nella sua fragile materialità, da perfezionare invece che da riparare, da rendere sempre più artificiale e sempre meno naturale: più resistente, più rapido, più longevo, più bello, più intelligente…
È proprio questo paradosso, ricco di strascichi visionari, fantascientifici e distopici, che un’esposizione appena aperta al Cid Grand Hornu, in Belgio, mette al centro. Il titolo è emblematico: Superpower Design.
Certo, da sempre il design è legato alla necessità dell’uomo di superare i suoi limiti biologici, ricorrendo alla creazione di strumenti, abiti, edifici non per adattarsi all’ambiente naturale, ma al contrario per adattarlo alle proprie esigenze. Da sempre, il design è una pratica di trasformazione che modifica lo stato naturale, in vista di un miglioramento delle condizioni di abitabilità e di vita. Ma grazie a tutte le trasformazioni operate, l’ambiente che ci circonda è mutato, diventando uno spazio in cui è sempre più difficile, o addirittura impossibile, discernere le frontiere tra naturale e artificiale. Un ambiente di cui le tecnologie e i media sono elementi costitutivi, e in cui elementi biologici e dati digitali convivono. Accelerazione, interconnessione, smartness si impongono come valori non solo da attribuire alle macchine ma anche all’umano.
Negli anni 90, degli artisti come Stelarc avevano denunciato l’obsolescenza del corpo umano, illustrando con le loro performance estreme e le loro ibridazioni, la figura del cyborg – metà-umano metà-macchina. All’epoca, iniziava a diffondersi la filosofia del post-umano e il transumanismo iniziava a raccogliere i primi adepti, evocando scenari in cui l’uomo era soppiantato dalle macchine.
Oggi, di fronte allo sviluppo che le tecnologie hanno avuto in questi decenni, quelle azioni pionieristiche appaiono quasi ingenue. Se certe filosofie riesumavano utopie superomiste e l’arte metteva in guardia di fronte a una mutazione minacciosa, nel frattempo il design si è incaricato di operare tale mutazione, in silenzio e in profondità: esoscheletri, protesi, wearable computer, intelligenza artificiale, soft robotica, i campi di esplorazione sono infiniti. La trasformazione è in atto. Si tratta ora di capire che posizione assumere.
Da sempre, il design è una pratica di trasformazione che modifica lo stato naturale, in vista di un miglioramento delle condizioni di abitabilità e di vita.
Ricordando il dilemma etico che tale trasformazione implica, l’esposizione al Grand Hornu parte da una citazione di Albert Camus: "L’uomo è l’unica creatura che rifiuta di essere ciò che è". E si chiede: “Il design può trasformarci in supereroi?”
Le opere presentate sono spettacolari, allo stesso tempo esaltanti e inquietanti. Si va dalla famosa stecca progettata da Charles e Ray Eames nel 1942 che inaugura un design impegnato nell’innovazione dei dispositivi sanitari e terapeutici, fino a una serie impressionante di protesi e oggetti che raccontano lo sport, la medicina o la chirurgia estetica come pratiche di potenziamento estremo del corpo umano. Molti progetti, nella loro dimensione provocatoria, rilanciano il dibattito etico e pongono una serie di domande. Per esempio, le mute Lzr Racer di Speedo e le scarpe VaporFly di Nike, grazie alle loro caratteristiche tecniche prodigiose, mettono in discussione i principi fondamentali di equità e pari opportunità nello sport?
L’Emotional Clothing immaginato dalla designer polacca Iga Węglińska, un indumento che percepisce i cambiamenti psicofisiologici che si verificano nel corpo di chi lo indossa, come la temperatura corporea, la frequenza cardiaca, la risposta galvanica o la propriocezione, aiuta a migliorare la comprensione dei processi percettivi o al contrario a espropriarli? E la serie di protesi (Prosthetic X) inventante da Isaac Monté, e che servono come indicatori del funzionamento o del non funzionamento di (alcune) parti del corpo, e cambiano in risposta ai dati sociali personali, ai dati sanitari e alle misurazioni esterne, sono pensati per aumentare l’empatia o per denunciare la fragilità inevitabile di un corpo umano sempre più inadeguato?
Con tutte queste domande, il design non smette di confrontarsi, come motore d’inventività e di innovazione o come strumento critico e speculativo. La sua funzione, trovando soluzioni o identificando problemi, è quella di migliorare le nostre condizioni di sopravvivenza in un mondo in crisi. Ma quali sono i suoi limiti?
Immagine di apertura: Minwook Paeng, The third eye, Evolution1. Courtesy Minwook Paeng
- Mostra:
- Superpower Design
- Dove:
- Cid Grand Hornu, Boussu, Belgio
- Date:
- dal 24 marzo al 25 agosto 2024