Sempre un po’ in bilico tra fotografia praticata e teorizzata, nella mia vita mi sono convertito al digitale tre volte. Ma se c’è una macchina con cui vorrei essere seppellito allora è la XA, l’analogico “ovetto” a marchio Olympus.
Stiamo parlando di una macchina a obbiettivo fisso dotata di mirino ottico, messa a fuoco manuale, esposizione semi automatica ed esposimetro. E fin qui quasi niente di straordinario. Non fosse che il tutto è strizzato in un formato compatto, molto compatto, da stare praticamente in ogni tasca, e che il mirino, galileiano, quindi molto luminoso, sfoggia cornici di correzione della parallasse e un ingrandimento di 0,6x, e che la messa a fuoco è accoppiata a un telemetro a sdoppiamento d’immagine con una corsa così breve (poco più di un centimetro) ma così precisa che non ci si crede, e che l’esposizione è a priorità di diaframma, uno dei due modi per averne un discreto controllo, e che i dati esposimetrici sono visibili nel piccolo ma luminoso mirino di cui sopra, e che l’assenza di specchio che caratterizza le macchine a telemetro, unita a un sensibilissimo — forse troppo — tasto elettronico di scatto e a un leggerissimo ma solido corpo in plastica, fanno della XA una macchina silenziosissima che può essere usata a tempi di scatto molto ma molto lenti (una volta che avete deciso l’apertura del diaframma lei sceglie il relativo tempo, da 1/500 di secondo a 10 secondi, per ottenere una giusta esposizione).
Una serie di piccoli accorgimenti la rendono poi ancora più completa, senza perdere manegevolezza: l’avanzamento della pellicola mosso da una poco scenica ma molto pratica rotella, il diaframma regolato da un tasto scorrevole sul fronte della macchina, un cursore che gestisce la selezione degli Asa da 25 (!) a 800 (forse l’unico vero limite, assieme a una massima velocità di otturazione non altissima) posizionato, come la piccola e fluida leva della messa a fuoco, sotto la lente, nonché una sottile linguetta posta alla base che, a diversi angoli di apertura, aziona prima la compensazione dell’esposizione di 1.5 EV (utilissima nei controluce), poi il check sonoro della batteria e infine (a un’estensione di 45 gradi che migliora opportunamente la stabilità dell’inquadratura quando l’apparecchio è appoggiato su una superficie non perfettamente piana) un autoscatto con led luminoso e avviso sonoro. Tutti espedienti che permettono di usare la XA senza praticamente togliere l’occhio dal mirino.
Ma la vera magia si nasconde nell’obbiettivo, un luminoso Zuiko 35 millimetri — quindi “multiuso”, con tutti i limiti del termine, dal paesaggio, facendo un passo indietro, finanche al ritratto, facendo un passo avanti — con un’escursione del diaframma da f/2.8 a f/22 e una messa a fuoco minima di 0,85 centimetri, caratteristiche davvero uniche per dimensioni così ridotte. E com’è stato possibile contenere un sistema ottico così complesso in così poco spazio? È qui che entra in gioco, come per tutto, del resto, il genio di Maitani Yoshihisa, il maestro–designer–ingegnere a cui si devono anche tutte le altre invenzioni — dalla mezzo formato PEN alla linea OM, dalle sorelline della XA (2, 3, 4 e 5, con caratteristiche via via più intuitive ma anche performance meno esaltanti) fino alla Mju (fortunatissima — e al momento ricercatissima — erede elettronica della XA) — che hanno reso Olympus una delle compagnie più innovative e imprevedibili del panorama.
Ricordo ancora mio padre, a cui devo la passione per la fotografia, osannare Maitani mentre mi mostra su un vecchio numero di Fotografia Reflex lo schema ottico della XA: un grandangolo a retrofocus invertito (cioè montato al contrario) costituito da sei lenti in cinque gruppi dei quali — per risolvere il problema delle dimensioni ed evitare la necessità di un obbiettivo sporgente (che, come quello di parte delle macchine competitor, avrebbe pesato sullo spessore finale della macchina) o a scomparsa (che, come quello dell’altra parte di competitor, avrebbe comportato l’impiego di ulteriori meccanismi e relative criticità) — a spostarsi durante la messa a fuoco è solo il terzo, ciò risultando in una lunghezza totale sempre fissa contenuta nell’impressionante misura di soli 31 mm dalla sommità della lente più esterna al piano pellicola.
Ciliegina sulla torta, il flash dedicato che si aggancia sul fianco integrandosi completamente con la forma della macchina e che nel formato con numero guida 11 (a differenza del più potente ed efficiente ma anche più pesante e ingombrante 16) non ne pregiudica la portabilità.
A rendere però la XA sorprendente e a suo modo unica, è il fatto che questo fantastico concentrato di tecnologia è racchiuso in quella che è di certo la trovata più innovativa — siamo nel 1978 — e caratterizzante dell’epoca: quella copertura dell’obbiettivo scorrevole che, oltre a proteggere la lente come uno scudo (e, spegnendo di fatto la macchina, a evitare tra l’altro scatti accidentali), rende il passaggio da dormiente a operativa (ovvero quasi sempre direttamente dalla tasca all’occhio) veloce e sicuro, e che le ha fatto meritare l’appellativo di “ovetto” con cui è conosciuta. Essenziale e geniale, dunque, la piccola Olympus: proprio come un uovo.
Raffaele Vertaldi è visual consultant di Domus.
Foto © Austin Calhoon and Lordcolus via Wikimedia Commons, Licenza Creative Commons