Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 513, agosto 1972
É passato un anno dalla scomparsa di Joe Colombo, e in queste pagine vogliamo ricordarlo – nella nostalgia di ciò che avrebbe ancora fatto – più che celebrarlo, perchè ciò avviene quotidianamente fra di noi, e perchè le sue opere, realizzate e non, testimoniano in ogni aspetto la sua genialità e la sua visione.
Le straordinarie “macchine da abitare” e da usare che Joe ha inventato sono state, e sono, una prova originale delle possibilità che la immaginazione e la fantasia dell’uomo-progettista hanno di riscattarci, in un mondo che le necessità speculative di produzione e di distribuzione tendono a rendere sempre più provvisorio, e conformista, e inquinato. Nascono dalla visione, entusiasta e sincera, non di un mondo “artigianale” e rurale, bensì di una civiltà superindustrializzata solo “a servizio” delle necessità dell’uomo, nella convinzione degli eccezionali contributi che il design può offrire al progresso della vita.
E in realtà oggi si può dire che Joe Colombo ha creato una sua scuola (la mostra italiana al Museum of Modern Art lo dimostra) e che dall’America al Giappone il suo messaggio sembra sia stato raccolto, anche se stavolta solo negli aspetti più fantascientifici. Noi, che abbiamo amato Joe fin dagli inizi e che abbiamo visto le visioni colombiane dell’ambiente abitato creare nella casa “nuovi paesaggi”, pensiamo che un’altra cosa ancora occorra testimoniare di lui, evocando la sua figura generosa e la sua consapevole ottimistica passione per una professione nella quale si sentiva maestro felice: che egli era un uomo intelligente, buono e gentile.
Le straordinarie “macchine da abitare” e da usare che Joe ha inventato sono state, e sono, una prova originale delle possibilità che la immaginazione e la fantasia dell’uomo-progettista hanno di riscattarci
Ringraziamo lo Studio Colombo ed Elda Colombo che ci hanno dato la possibilità di pubblicare questo suo lavoro, inedito, del 1970. É il progetto dello stand Hoechst alla Fiera della plastica di Düsseldorf 1970.
I grandi “oggetti” che occupano lo spazio – la cupola pneumatica, il cilindro, i tubi, le capsule – sono la traduzione in immagine dei movimenti dei visitatori (pubblico e clienti che, una volta entrati, si avviano per percorsi diversi, questi riunendosi per le contrattazioni, o isolandosi per gli incontri, ecc.): immagine che risulta, quasi, quella di un gigantesco “flipper” percorso da persone-palline, macchina e gioco nello stesso tempo (come è giusto, dato che siamo in una fiera), macchina che si diverte di sè stessa, macchina-spettacolo (sia per chi la percorra che per chi la osservi).
Dalla zona di ingresso (sotto la struttura circolare aerea, di richiamo) occupata dal grande “cilindro“ di esposizione e dalle 8 capsule per la distribuzione di informazioni, partono quattro tunnel (in profilato di PVC estruso, foderati di amianto): uno per il pubblico, due per i clienti (l’immissione in questi due tunnel è regolata da una “torre di controllo”), uno per il personale.
I primi tre tunnel (quello per il pubblico è un tunnel-esposizione, quelli per i clienti conducono alla cupola conferenze e contrattazioni) hanno una speciale chiusura pneumatica necessaria per la tenuta d’aria della cupola (due sacchi di politene che, gonfi, chiudono il passaggio, e sgonfi lo aprono): il quarto tunnel, di servizio, procede fino alla “cucina”, spazio circolare scoperto che comunica con la cupola pneumatica attraverso un diaframma a bandelle elastiche a tenuta d’aria. La grande cupola pressurizzata (una membrana di materiale plastico) è attrezzata all’interno, oltrechè da sedili-tavolino, bar, telefoni, schermo parabolico, ecc., da speciali cabine chiuse, tipo roulotte, per piccole riunioni importanti.