“Qualità”! È la parola che Michael ripete più spesso. Contro il consumismo e l’ansia di una società, che per moda e noia compra e getta di continuo, il rimedio è sforzarsi di creare nuovi classici contemporanei. Leggeri e potenti, e che durino nel tempo. E proprio oggi che il suo spettacolare sistema modulare al LED Arrangementsper Flos è finalmente entrato in produzione, ecco che la lezione di sottrazione poetica del designer che in questi anni ha influenzato più di tutti lo stile dell’illuminazione domestica, dimostra tutto il suo potenziale arrivando a conquistare anche altre categorie merceologiche. Dove l’approccio alla forma rimane lo stesso: una serie di parametri da raggiungere sfoltendo e raffinando l’idea. E sempre con quel gusto personale d’infondere alla struttura proprietà magiche. Con interruzioni visive, per esempio; oppure con equilibrismi raggiunti attraverso un’assenza apparente di giunzioni. L’importante è mantenere la familiarità dell’oggetto, “ma spingerlo in avanti, verso il futuro”.
La sfida stilistica di Michael Anastassiades: creare oggetti senza tempo
Dalla rubinetteria a un sistema di scaffalature, il designer cipriota racconta i progetti presentati al Salone. Anche se nel cuore “resto sempre un lighting designer”.
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- Cristiano Vitali
- 17 maggio 2018
Un sistema di scaffalature, un rubinetto, un tavolo e un’installazione nello showroom di Flos. È stato un Salone del Mobile alquanto impegnativo per te. Partiamo dalla scaffalatura: com’è avvenuto l’incontro con B&B Italia?
Ci siamo incontrati velocemente alla Design Week dell’anno scorso. Poi ancora in un momento successivo, quando me l’hanno chiesto esplicitamente e in cui abbiamo analizzato la possibilità di esplorare una collaborazione – d’altronde anche se ho lavorato principalmente per Flos, B&B Italia e l’azienda bresciana fanno ormai parte dello stesso gruppo. Poi, e sai come vanno queste cose, abbiamo avuto una sequenza di meeting fino ad arrivare a un briefingdirei definitivo verso novembre. Lo sviluppo del progetto è stata un’avventura super eccitante.
Nella scelta del prodotto ti hanno dato completa libertà?
Le indicazioni erano aperte, ma con un focus sull’area living, in cui l’idea progettuale era di pensare a un elemento divisorio, una libreria. Da disegnare secondo modalità e stile personali.
Come hai dunque sviluppato il progetto?
È difficile descrivere dove e come inizio a lavorare. Talvolta tutto può cominciare in maniera spontanea, da un’idea che traduce immediatamente il design in un’immagine visiva precisa. Altre ancora secondo un processo in cui tutti gli elementi, da che tipo di funzione a quale posizione deve avere nell’ambiente, sono definiti man mano che vengono analizzati. Come vedi una genesi sempre diversa, impossibile da ridurre a una formula. Se provo però a descriverlo a me stesso, direi che è un lavoro che ha molto a che fare col pensiero, con l’ascoltarsi. E con il definire dei parametri di qualità, che poi è il momento in cui il prodotto comincia a trovare una definizione, a emergere. Segue di conseguenza un lavoro attento di raffinamento. Che vale per qualsiasi prodotto, sia chiaro. Diciamo che quando sono più spontaneo disegno velocemente, e la forma che altrettanto velocemente riesco ad ottenere ha la perentorietà di un’icona, che aspettava solo di essere tradotta in un oggetto di design. Con la libreria Jack però è stato il contrario.
A prima vista, sembra un oggetto con un aspetto altamente tecnico...
Non direi solo tecnico. Di solito, quando comincio a occuparmi di un progetto penso anche a certi parametri strutturali. A delle qualità, come dicevo prima: senso preciso delle proporzioni, forme pulite Caratteristiche astratte che una volta definite mi permettono di sviluppare una metodologia che trasforma il processo creativo in una sorta di esercizio, da raffinare senza scordare però quelle qualità iniziali. È un processo interessante. Nel sistema Arrangementsdi Flos, per esempio, volevo che si fosse una certa modularità e componibilità, che permettessero a chiunque di creare il proprio chandelier. Un gioco etereo di forme sospese che si bilanciano nello spazio come i mobilesospesidegli anni Sessanta. All’inizio della progettazione non sapevo Arrangementsavrebbe avuto quella forma, ma quei parametri mi hanno permesso di restringere il campo. Sono elementi altrettanto importanti nella definizione di un progetto di quelli tecnologici.
Di Jack, come del resto per la maggior parte dei tuoi oggetti, impressiona l’assenza evidente di elementi di sostegno e giuntura, mascherati e racchiusi come sono nello scheletro della struttura. Come riesci a ottenere questa qualità?
Sì, la magia è tutta nella struttura, nel risolvere tutti i problemi tecnici in modo invisibile. Jack appare come una serie di elementi appoggiati o accostati l’uno all’altro, in un gioco architettonico di apparente, appunto, magia. L’effetto è di pulizia e ordine, e di curiosità, perché guardando attentamente il sistema ci si accorge che manca qualcosa alla struttura, che sembra reggersi senza ragioni tecniche. Una caratteristica che mette il prodotto “libreria” in una luce tutta nuova rispetto alle altre proposte sul mercato. In sostanza, Jack non è molto lontano da una impalcatura per lavori di restauro o consolidamento strutturale degli edifici, solo che nel suo caso sono spariti tutti gli elementi di raccordo.
Da cosa deriva il nome Jack?
Siccome si tratta di un sistema divisorio i cui sostegni uniscono pavimento e soffitto, ho voluto usare la parola inglese che indica l’elemento di supporto o che tiene in posizione di sostegno: Jack, appunto. Poi corrisponde anche ha un nome di persona, che ho trovato carino come gioco.
Se dobbiamo trovare una parola in grado di descrivere il tuo lavoro potremmo usare effortless, senza sforzo?
Senza sforzo, certo. Che è qualcosa molto difficile da raggiungere, almeno tecnicamente. Anche leggerezza andrebbe bene. Perché credo sul serio che il buon design è quello che evita la pesantezza. Ovverosia l’abbondanza di informazioni. A bombardarci di messaggi ci pensano già i media, non serve aumentare il traffico creando oggetti carichi di messaggi ulteriori. È dunque necessario adottare un approccio minimal, che non vuol dire però esente da valori. Ma usare il massimo delle capacità espressive con poco, come fanno gli oggetti di sopravvivenza per la vita all’aperto.
È quello che vuoi ottenere, oggetti che offrano un certo tipo di sopravvivenza stilistica?
Li voglio senza tempo. Che siano longevi. C’è infatti anche il problema che le persone sono ossessionate dal cambiamento. Dal sostituire gli oggetti con altri nuovi di zecca. Per noia, perché viviamo in una società rapida, perché tutto è immagine. Sia chiaro, non condanno in maniera unilaterale il contemporaneo, che è anche il mio tempo. Ma, ecco, quello che si può fare è indicare una strada, quella cioè della qualità in contrapposizione alla superficialità.
Quasi una missione. Un approccio filosofico da classico del design, portatore di valori immarcescibili e universali, sempre rilevanti al di là delle mode...
È senz’altro vero. Quando ho cominciato a lavorare con grossi marchi come B&B e Flos, ho cercato di non farmi schiacciare dal loro potenziale tecnologico. Che è qualcosa di molto diverso da come ero abituato a progettare le mie collezioni di lampade. È infatti una seduzione molto pericolosa, che può portare fuori strada, e che occorre perciò addomesticare. Un esempio classico in questo esempio è String Light, sempre per Flos. Un sistema di illuminazione che rappresenta una matita nelle mani del consumatore, che può organizzare, e cambiare nel tempo, la struttura dei cavi come meglio crede. Un gesto che può essere intimidatorio per chi cerca una soluzione pronta e finita, ma cionondimeno un dono che unisce poesia e longevità strutturale. Lo stesso dicasi per Arrangements, anche se il gesto è diverso. Strings è una matita su un foglio bianco, mentre in Arrangements c’è più spontaneità, più libertà compositiva. Posso unire un cerchio con un elemento a goccia, o con un elemento orizzontale. Entrambi i progetti rappresentano una novità, ma a differenza di altri hanno una plasticità che contrasta l’ansia della sostituzione - per noia o per moda – degli oggetti, come dicevamo. Permettono di cambiare senza buttare.
Che differenza c’è tra l’allestimento di Arrangements al Miart e quello che hai realizzato in corso Monforte per la Design Week?
Entrambi sono stati interventi per far capire la plasticità del sistema di illuminazione, e colpire l’immaginazione. Suggerendo ipotesi compositive. Al Miart ho voluto comunicare applicazioni più domestiche, con combinazioni di elementi in libertà. Negli spazi dello showroom in centro città, ho creato “Jewels after Jewels after Jewels”, un’installazione più fantastica in cui dal soffitto “cade” uno screen modulare e tridimensionale che divide la stanza, composto da più elementi Arrangements; e due colonne realizzate con lo stesso sistema. Costruzioni poetiche ma del tutto replicabili anche in uno spazio privato.
Per quanto riguarda invece AA/27 per Boffi e Fantini, come hai affrontato la progettazione del tuo primo rubinetto?
Il rubinetto fa parte della collezione About Water. Boffi e Fantini mi hanno contattato per propormi una collaborazione e la restrizione materiale dell’acciaio inossidabile mi ha interessato molto a livello creativo. Sono sempre interessato a confrontarmi con altri ambiti espressivi. E quello della rubinetteria è un ambito molto saturo di prodotti, con limitazioni, dicevo, e possibilità esplorate quasi fino all’esaurimento. Alla forma di AA/27 sono arrivato attraverso un approccio, come sempre, di sottrazione. Che mostrasse qualità anti spettacolari, familiari. Un disegno semplice ma che fosse espressione di un equilibrio tra gli elementi. Il rubinetto è costituito da manopola e bocca accostati da una giuntura quasi invisibile. Il fattore estetico, e tecnico, più innovativo però è costituito dal fatto che la bocca è sospesa dal piano.
Quando parli di familiarità, ti riferisci anche a immagini e ricordi che fanno parte del tuo passato?
Intendo una forma che vedi sempre e ovunque, replicata all’infinito. E se la vedi dappertutto è perché funziona. E trattiene senz’altro delle ragioni di buon design, da cui è sempre positivo partire per arrivare alla definizione del mio oggetto. È un modo di approcciare una forma classica e spingerla ancora un po’ in avanti, investendola di un nuovo contenuto.
Come hai dunque modificato la familiarità del tavolo rettangolare con Ordinal per Cassina?
Attraverso l’esplorazione di un rapporto nuovo tra sostegni e piano, che ho modificato intervenendo sulla posizione della gamba: inclinandola a quarantacinque gradi partendo dagli angoli del tavolo e andando verso l’interno. Le quattro gambe, a loro volta sagomate sempre a 45, indicano come delle frecce i poli del tavolo. È in sostanza uno studio dei rapporti tra gli elementi, che mi piace chiamare esercizio. Anche per quanto riguarda i materiali, che in questo caso possono essere scelti a contrasto: gambe in alluminio verniciato e piano in legno.
Sommando tutti questi progetti, per te è stato un grande edizione del Salone, no?
Questa edizione del Salone del Mobile è stata particolarmente eccitante. E variegata. Anche se rimango sempre molto interessato alla luce, per cui sento di provare ancora una grande attrazione.
Ti consideri un light designer oppure è una definizione che ha deciso per te il pubblico?
Lo hanno deciso le persone, ma alla fine la gente ti definisce in base a quello che fai. E io ho disegnato principalmente luci, che restano la mia passione. Con il mio brand – il 2011 è stato il mio primo Euroluce – continuo a esplorare nuove soluzioni.
Che rapporto hai con i progetti su commissione e il mercato delle limited edition?
Realizzo solo commissioni che mi interessano, ma resto più legato al product design. I limiti che un oggetto di design industriale impone sono molto più interessanti. Credo poi che il design debba essere democratico, e accessibile. La collezione che ho realizzato per Nilufar Gallery è da considerarsi speciale per materiali e unicità di stile, il che giustifica il suo prezzo alto. Ma non esiste altro modo nel progettare una limited edition. Fabbricazione e pensiero sono investiti in qualcosa di eccezionale, non replicabile, appunto.
Sei un collezionista?
Non direi collezionista puro. Mi piace circondarmi di oggetti belli, pochi a dire il vero. Nella mia casa ho infatti pochissime cose. Mi piace anche l’arte, se me la posso permettere. Molto spesso faccio dei baratti con artisti interessati al design (tra l’altro, è una pratica che accade anche tra designer). L’arte la sento molto vicina, d’altronde il mio lavoro si trova al limite dei due mondi. Ma più che un artista, mi sento una persona creativa, un designer, e questo mi rende felice. Le persone sono libere di leggere il mio lavoro in un senso oppure in un altro. Quello che amo degli artisti è la loro libertà di espressione, qualcosa che cerco sempre anch’io.
Cosa pensi del design contemporaneo?
Molto spesso non è eccitante, ed è un peccato. Lo era, ma secondo me tutto è stato inquinato dal consumismo. Ci sono troppo brand e designer che, piuttosto di affrontare un percorso di ricerca, imitano il concorrente. In un sistema che si nutre di novità a raffica. E nel fare ciò, danno indicazioni precise anche ai designer, che se sono giovani e vogliono lavorare sono giocoforza costretti a adeguarsi. Così che alla fine non esiste un linguaggio veramente autonomo, e nemmeno rappresentativo dei tempi, molto spesso. È come se fossero finite le idee. E infatti si pesca dagli archivi, dai classici. Ovvio, i nomi di oggi che stanno producendo dei classici contemporanei ci sono: i fratelli Bouroullec, Konstantin Grcic, Jasper Morrison, Cecilie Manz. Ma per quanto riguarda lo stile del 2018, direi che anything goes.