Sebastian Bergne, britannico, si occupa da sempre di product design, ma ama tutto ciò che ha a che fare con il progetto, dalla curatela all’insegnamento, fino alla critica. Laureato al Royal College of Art nel 1990, nello stesso anno apre il suo studio a Londra. Ha un modo lieve di aggiungere un semplice elemento emotivo anche al più semplice oggetto di uso quotidiano. Perché il design si usa ogni giorno, corretto? Il suo è un approccio mai banale, ma essenziale al progetto: ha lavorando con brand internazionali quali Luceplan, Tefal, Tolix e Driade, ma al tempo stesso è aperto a collaborazioni con gallerie, oltre ad avere avviato la sua propria linea di edizioni limitate. Il suo modo è quello dell’intervento quasi trasparente, nascosto, lieve ma riconoscibile. Ci sorprende con oggetti che a prima vista ci sono familiari per poi scoprirne una parte nascosta – quella dove invece è visibile l’intervento della sua mano. La dicotomia tra normale ed eccezionale sembra trovare sintesi estrema nei suoi oggetti, a cui pensa come il risultato di ingredienti basilari quali la funzione e l’eloquenza. Diversi suoi lavori sono parte delle collezioni permanenti del MoMA di New York, del Design Museum di Londra e recentemente del Musée des Arts Décoratifs di Parigi. Ma soprattutto, il design è da trattare con delicatezza, con i guanti bianchi. Come a un primo appuntamento.
Quando eri bambino che cosa volevi fare da grande? E come è successo che sei diventato un designer?
Da bambino ho combattuto contro la dislessia. Voleva dire che tutti gli argomenti basati sulla scrittura erano difficili. Di conseguenza ho passato la maggior parte del tempo nei laboratori, nel dipartimento d’arte e nelle aule di scienze della mia scuola. Era più o meno inevitabile che finissi a fare il designer o l’architetto, benché per un po’ abbia strizzato l’occhio all’oreficeria e alla fotografia.
Come vedi il mondo della creatività di oggi, secondo la tua opinione?
La creatività del progetto è l’applicazione della tecnologia in modo utile e sensato per il mondo di oggi. Quando dico “tecnologia” intendo tecnologie, tecniche e materiali di ieri e di oggi. Il contesto e il momento in cui una cosa viene creata sono fondamentali, ne possono cambiare completamente il significato. Perciò l’età dell’oro del design è sempre il presente.
A proposito di design di prodotto, pensi che oggi in questo settore sia presente una tendenza particolare?
Francamente, quando progetto, le tendenze non le considero proprio, magari dovrei?
No, non dovresti, secondo me…
Penso, dato che vivo nel mondo di oggi, di essere già immerso nelle idee del momento, per cui non progetto nell’isolamento. Designer e artisti diventano sempre una specie di filtro o di interpreti del mondo di oggi in funzione del mondo del futuro prossimo.
Parliamo di qualcuno dei tuoi progetti più recenti.
È interessante che io abbia due progetti recenti concepiti e prodotti per un contesto museale. Il primo è una famiglia di lampade progettate per la mostra “Akari Unfolded”, da poco aperta al Noguchi Museum di New York. La collezione è coordinata e curata da Ymer & Malta, di Parigi. La lampada Poise è ispirata all’opera di Noguchi, adotta materiali semplici e riferimenti semplici. Carta, piombo, cavo e acciaio inossidabile combinati a formare composizioni attentamente bilanciate che proiettano una morbida luce direzionale. La magica metamorfosi delle lampade Akari, da piatte a tridimensionali, si ritrova anche in Poise. Si trasformano a partire da un foglio di carta grazie a una tecnica di piegatura presa a prestito dai sacchetti di carta d’uso quotidiano. Il secondo progetto si chiama Digital Shabbat e l’incarico viene dall’Israel Museum per la mostra “To Go: New Designs for Jewish Ritual Objects”. Per questa mostra è stato chiesto ad alcuni importanti designer di ogni fede religiosa di creare un set da viaggio di oggetti per una vacanza o per un’occasione di vita ebraiche. La mia ricerca mi ha portato verso i numeri e l’importante ruolo che hanno nell’ebraismo. Di conseguenza il mio oggetto li ha integrati, numeri significativi e benauguranti tra cui 1, 3, 4, 5, 7, 8, 10, 12, 72 contribuiscono a determinare proporzioni, dimensioni e schemi. Il vetro che ho usato è lo stesso materiale adottato per le attrezzature da laboratorio d’alto livello. Il tessuto è stampato in digitale e il contenitore è costruito con le più recenti tecniche di fabbricazione additiva. Materiali e concetti si uniscono in un oggetto che in apparenza non ha aperture. Il contenitore, che ricorda un antico e misterioso libro sapienziale, ha linee che rispondono a numeri importanti per l’ebraismo: nell’insieme è un oggetto digitale contemporaneo che vuole rappresentare il passato, il presente e il futuro di questa ritualità.
Quanto e come la tecnologia influisce sul tuo modo di lavorare e sulla tua vita quotidiana?
Inevitabilmente la tecnologia rende il mio lavoro più rapido e molto più facile. Controllo i miei numeri, posso comunicare in modo istantaneo con migliaia di persone in tutto il mondo e creo file tridimensionali che si possono usare per la stampa o per la fabbricazione in pochi giorni. Ma, per quanto meravigliosi, questi cambiamenti non sono soltanto positivi. Forse la penso all’antica, ma credo che la tecnologia andrebbe controllata e usata per giusti scopi, e quindi la nostra fermezza umana ed etica è più importante che mai. Nel mio processo creativo, per quanto usi di queste tecnologie traendone vantaggio, butto giù degli schizzi, disegno e spesso costruisco modelli a mano. In misura sempre maggiore, per elaborare e comunicare le idee, uso tutti i linguaggi.
Qual è la tua ricetta per evitare l’ovvietà?
Sono davvero molto interessato a ciò che rende una cosa familiare o meno. Perciò, per così dire, adotto l’ovvio. Dà alle cose un senso di normalità che affascina le persone e può poi entrare in contrapposizione con un altro aspetto del progetto.
Che cosa si può considerare nuovo, oggi?
Una cosa che migliora o costruisce su ciò che è già stato fatto è una cosa nuova.
Credi che si possa ottenere la felicità dal proprio lavoro?
Dipende dalla definizione di felicità. Per me “felice” implica una condizione attivamente positiva. Non credo sia ragionevole aspettarsi di essere sempre felice nel lavoro. Francamente preferisco il termine “soddisfatto”. Credo che le persone, per la maggior parte, siano soddisfatte del proprio lavoro se fanno un mestiere che, secondo loro, corrisponde a ciò che sono. Personalmente sono felice del mio lavoro occasionalmente, per la maggior parte delle volte sono soddisfatto e qualche volta sono infelice. Mi considero molto fortunato.
E io sono d’accordo con te, Sebastian. Ci sono delle figure che hanno influito su di te? Perché e come?
Da giovane e da studente ero ovviamente fortemente influenzato da chi mi stava intorno, dalla mia famiglia, dai professori e dagli amici. Anche dall’informazione e dai libri cui avevo accesso in un mondo precedente a Internet. Era una vasta, e in certo qual modo classica, formazione al design. Spicca qualche punto di riferimento. Grandi designer italiani come Castiglioni e Sottsass, il Bauhaus, William Morris e il design della tradizione giapponese. Artisti come Duchamp, Rauschenberg e perfino i Preraffaelliti. Nel tempo questi influssi sono diventati parte della mia memoria e del mio carattere, ed è raro che siano uno stimolo attivo per ciò che faccio. Mi guardo continuamente intorno e sono più interessato in generale all’arte, alla scienza e alle qualità umane.
Come inizi un lavoro? Voglio dire: ci sono dei criteri particolari che segui costantemente, una specie di rituale, oppure hai atteggiamenti differenti secondo la natura del progetto?
L’idea che il progetto debba seguire un processo specifico mi mette un po’ a disagio. Per me ogni progetto è un nuovo inizio e va affrontato con attenzione, un po’ come un primo incontro. La maggior parte dei progetti ha un committente o un partner, e direi che il punto da cui parto è conoscersi l’un l’altro. È importante capire le aspettative, i vincoli e le ambizioni reciproche. Idealmente il percorso che va da questo inizio a un esito fortunato, oppure sfortunato, tocca punti consueti, ma dovrebbe essere vario e piacevole.
Che cos’è per te il design democratico?
Il design democratico è un design accessibile al maggior numero di persone possibile. Non è un design creato grazie a un qualche tipo di processo democratico. Detto ciò, non credo che il design debba sempre cercare di essere democratico. In certi casi è giusto che il design, come ogni impresa creativa, abbia un pubblico limitato.
La tua definizione del tuo design?
Mi sforzo di creare oggetti che siano familiari ed eccezionali, utili e dotati di senso. Progetti differenti richiedono che io dosi questi ingredienti in proporzioni differenti.
- Titolo mostra:
- Akari Unfolded: A Collection by Ymer&Malta
- Sede:
- The Noguchi Museum, New York
- Date di apertura:
- 28 febbraio 2018 – 27 gennaio 2019
- Titolo mostra:
- To go: New designs for Jewish ritual objects
- Sede:
- Israel Museum, Gerusalemme
- Date di apertura:
- 28 marzo – 5 ottobre 2018