A cavallo tra due Paesi, Israele e Svizzera, e a suo agio tra discipline e metodologie eterogenee, il giovane designer israeliano Omer Polak combina l’interesse per il design di prodotto con uno sguardo fresco sul mondo dei sensi e sulle loro possibili applicazioni. Caratterizzati da una spiccata dimensione performativa, i suoi lavori – come S senses, un’indagine sugli odori corporei che ha dato luogo ad alcuni dispositivi-gioiello destinati, tra gli altri, ai pazienti affetti da anosmia (la malattia che porta all’indebolimento dell’olfatto), o Blow Dough, un processo di cottura per il pane realizzato con un soffiatore – mirano a raccontare storie inedite. L’abbiamo incontrato per discutere con lui come sia possibile progettare componenti così volatili e quale possa essere l’impatto sulla percezione della nostra identità e della nostra vita quotidiana.
Ti definisci designer e artista e, allo stesso tempo, non esiti a presentarti come “designtist”, una crasi tra designer e scientist. Come confluiscono queste identità nel tuo lavoro?
Anni fa, sono rimasto colpito dalla definizione che Yaakov Kaufman, grande progettista israeliano, dava del design in un’intervista in cui offriva consigli su cosa studiare ai neodiplomati. Per Kaufman, il designer non è un professionista in nessun settore. Non sa, per esempio, come lavorare i metalli; e non è nemmeno un falegname esperto. Eppure, sa guardare le cose in prospettiva e riesce a mettere in relazione tutti gli aspetti che definiscono la nostra vita quotidiana. Per quanto mi riguarda, io sono semplicemente molto curioso. Quando lavoro su temi scientifici, non ho una solida conoscenza pregressa, ma comincio con una ricerca progettuale e la combino con metodi che assumono una prospettiva scientifica. Quando ho iniziato a collaborare con il Weizmann Institute of Science sul tema dell’anosmia mi sentivo molto insicuro, eppure i miei referenti hanno trovato il progetto decisamente in linea con le loro attività.
I tuoi progetti guardano spesso al mondo dei sensi e, in particolar modo, a quello dell’olfatto, di cui ti interessano non tanto i profumi quanto gli odori. Cosa li rende così intriganti e al tempo stesso disturbanti?
È affascinante l’idea di usare un materiale che non è un materiale, con cui non puoi costruire niente di visibile. Il mio interesse per gli odori è iniziato come un esperimento su me stesso successivamente confluito nel progetto “S senses”: ho progettato un sistema di tubi che si connettono intorno al mio corpo e per giorni ho provato a sentire com’era il mio odore e come cambiava nel tempo. Questa esperienza mi ha suggerito che è possibile insegnare a odorare. Non si tratta di giocare con le forme e i colori, ma di creare esperienze che rendano le persone più consapevoli. L’odore è un forte vettore dell’identità e racconta moltissimo dei luoghi e delle persone. Per questo mi piace investigare gli odori che tutti tentano di mascherare.
I workshop sono una parte attiva della tua ricerca.
Attraverso i workshop ho l’opportunità di avvicinarmi alle persone e usare i loro riscontri per generare informazioni di cui posso verificare le possibilità e i limiti. Una delle cose che facciamo è il cosiddetto food pairing, ossia assaggiare cibi crudi cambiando la loro associazione. Non bisogna essere esperti per annusare e assaggiare: per esempio, se metti insieme ananas e basilico scopri che hanno qualcosa in comune e che, mangiati insieme, il loro sapore si esalta. Ancora, per la filiale brasiliana di Drom, azienda leader nella ricerca sulle fragranze, abbiamo realizzato un grande archivio di odori tra cui metallo, plastica, frutti, cibo, insieme ad altri oggetti impensati. Con Renata Abelin, responsabile marketing di Drom São Paulo, abbiamo provato a raccontare storie con gli odori, creando una sorta di enciclopedia nella quale possono essere associati uno dopo l’altro per sviluppare una narrativa. Si può cominciare con un odore d’inquinamento, poi ci si può fare ispirare da una donna accanto a noi che indossa del profumo, ma che sta sudando, ricavando una timeline dell’odore che genera automaticamente una storia.
All’ultima Jerusalem Design Week hai presentato “The Tchelet Island”, un arazzo in macramé tinto mediante un’antica tecnica, oggi recuperata grazie allo sforzo combinato di rabbini e ricercatori, che utilizza un preziosissimo azzurro estratto da una chiocciola marina locale.
Ho lavorato con una comunità di religiosi che vivono in mezzo al deserto per produrre una piccola quantità di materiale destinato agli indumenti rituali indossati dagli ebrei ortodossi. Ai miei occhi questa è una conoscenza che potrebbe facilmente estinguersi: non si tratta infatti di una tecnica specificatamente ebraica, visto che in passato era diffusa in tutto il Medio Oriente, in particolare in Libano e Siria. È bello pensare che se ci fosse pace nella regione sicuramente questa manifattura potrebbe nuovamente diffondersi, generando una fonte di reddito per molte persone.