In vista della Dutch Design Week di Eindhoven, (fino al 29 ottobre), Tamar Shafrir ci è sembrata una delle figure più adatte con cui parlare di una delle manifestazioni di maggior interesse nel panorama del design contemporaneo, da sedici anni affermazione e vetrina dell’attitudine olandese per la disciplina. La prima volta che ci siamo incontrati, nel 2013, viveva a Milano e collaborava con Joseph Grima e Domusweb. Con l’allora direttore della rivista ha successivamente fondato a Genova lo studio interdisciplinare Space Caviar, mentre adesso, tra le tante cose, è ricercatrice al Het Nieuwe Instituut di Rotterdam e docente dei corsi “Contextual Design” e “Social Design” alla Design Academy di Eindhoven. Citiamo solo uno tra i suoi tanti progetti e ricerche: “Philosophers in Paris: When Kanye met Jean Baudrillard” è un blog che creato qualche anno fa per gioco, ma che racconta bene la capacità di Shafrir nel mischiare cultura pop, design e scienze sociali.
Salvatore Peluso: “Stretch”, il tema di quest’anno, considera il design come un esercizio mentale, “yoga per il cervello”. Un invito a uscire dalla propria comfort zone, in favore della sperimentazione e della continua innovazione. È questa l’essenza del design olandese?
Tamar Shafrir: Credo che il design olandese si trovi in un momento di transizione, un momento di evoluzione. Le strategie elaborate per mettere in discussione concetti come la perfezione, la bellezza, la durata e il lusso tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila non possano più essere considerate radicali. Si può dire che l’essenza del design olandese sia la sua capacità di fare a meno della tradizione, di non dare nulla per scontato e di ignorare le argomentazioni riduttive del design commerciale o conservatore. Ma credo che il design olandese stia cercando un nuovo territorio da rivoluzionare. Dimostrare che i prodotti d’uso quotidiano possono integrare dei valori e che la sperimentazione sui materiali può generare negli oggetti una bellezza nuova non basta più. Non amo l’allusione al design come “yoga mentale”: fa sembrare il design un palliativo o un trattamento terapeutico invece che una strategia critica di intervento sui materiali e sulle fonti di energia dell’ambiente. Ma qui in Olanda certe scuole di design e certi designer stanno senza dubbio ampliando le aspettative su ciò che un designer può fare. Per esempio le performance e i filmati stanno diventando comuni quasi quanto gli oggetti. Il che certamente riapre la questione di che cosa sia il design e di che cosa possa diventare.
Salvatore Peluso: Com’è cambiato il Design Olandese dagli inizi e come vedi il futuro della scena nei prossimi anni? Quali sono le prospettive della DAE con Joseph Grima?
Tamar Shafrir: Credo che il design olandese abbia dato ottime prove di sé alla scala del singolo oggetto realizzato manualmente e del prototipo, e ora sta gradualmente affrontando alcune altre sfide. Dopo qualche anno di diffidenza nei confronti della tecnologia digitale, in una specie di scetticismo luddista, molti più designer adottano il digitale sia come metodo produttivo sia come strumento della comunicazione quotidiana e come linguaggio. Il pericolo, forse, è dar vita a un ibrido tra la natura sperimentale del design olandese e la natura disgregatrice delle tecnologie e delle reti di Silicon Valley, che renderebbe il design complice di una perniciosa forma di sfruttamento capitalista. Ma credo che i designer olandesi, con la loro attenzione ad aspetti non quantificabili come l’emozione, la fiducia, il comfort e le forme di aggregazione, siano in grado di scoprire nuovi modi di generare valore con la tecnologia senza far ricorso alla raccolta dei dati e alla pubblicità.
Un altro modo in cui il design olandese sta cambiando è il fatto che inizia a prendere più seriamente in considerazione la questione dell’economia. Designer come Christien Meindertsma, che è diventato celebre per l’ampiezza della sua ricerca sui materiali e sulla produzione di oggetti derivanti direttamente dal paesaggio locale, oppure Dave Hakkens, creatore di Phonebloks e di Precious Plastics, stiano spostando l’attenzione sul modo di rendere affidabili e sostenibili i prodotti tramite la microindustria. Il punto interessante è come le qualità del design olandese possano essere influenzate dall’aumento di scala della produzione, dalla riduzione dei prezzi e dal divenire meno elitarie e più accessibili. Sarebbero ancora in grado di attirare l’attenzione e i desideri del pubblico? O diventerebbero più banali e scontate? È un buon banco di prova per le premesse teoriche secondo le quali il design ha agito negli ultimi quindici anni.
Credo che il design olandese stia cercando un nuovo territorio da rivoluzionare. Dimostrare che i prodotti d’uso quotidiano possono integrare dei valori e che la sperimentazione sui materiali può generare negli oggetti una bellezza nuova non basta più
Con Joseph Grima come direttore della Design Academy di Eindhoven la scuola affronterà decisamente dei temi nuovi. Grima è il primo direttore non olandese della scuola, nonché la sua prima figura realmente interdisciplinare (in contrapposizione con il saldo radicamento disciplinare nel design o, nel caso di Alexander van Slobbe, nel fashion design). Per Joseph le questioni della tecnologia contemporanea, dell’azione politica e le frontiere dell’abitare umano sono fondamentali per la professione del designer. Il design olandese si rifugia troppo spesso negli interni domestici accoglienti o nello spazio protetto delle gallerie e immagino che questa tendenza verrà messa in discussione. Contemporaneamente credo che Joseph sia fondamentalmente interessato alla questione della pedagogia e della formazione come modalità di scambio collaborativo. Nella sua lezione dell’estate scorsa al MADE Labs di Siracusa ha parlato a lungo di Descolarizzare la società (1971, trad. it. 1973) e di La convivialità (1973) di Ivan Illich, e del modo in cui quel sapere fornisce capacità d’azione e può essere organizzato meno gerarchicamente e più a rete. Potrebbe essere una premessa interessante per la Design Academy, che è in certo qual modo diffidente nei confronti del cambiamento anche se sotto altri aspetti è uno spazio incredibilmente elastico.
Salvatore Peluso: Molte biennali, grandi eventi e festival culturali provano a coinvolgere e creare delle connessioni a lungo termine con la città, spesso senza grande successo. È un caso paradigmatico la recente Documenta, il cui claim principale era “Learning from Athens” e che è stata criticata proprio per la mancata partecipazione della scena artistica locale e della società civile. Nel caso di Eindhoven, qual è il rapporto tra la classe creativa e la città?
Tamar Shafrir: In generale credo che la Dutch Design Week sia ottimamente integrata nella vita della città, specialmente per quanto riguarda i designer locali. Zone come Strijp-S sono piano piano cresciute dalla condizione di luoghi veramente vivi solo durante manifestazioni come la DDW o la STRP Biënnale a quella di luoghi attivi lungo tutto l’arco dell’anno. Oggi il rischio è forse l’opposto: che la Dutch Design Week abbia troppo successo come punto di riferimento. Per esempio in soli pochi anni la Sectie-C della parte orientale si è trasformata da straordinaria terra di nessuno fatta di falò e idromassaggi all’aperto improvvisati in container di plastica nella sede di un festival dove per entrare si paga il biglietto, con ristoranti e negozi alla moda. Il design ha un’incredibile forza di gentrificazione e quindi in qualche misura la città sfrutta i suoi stessi risultati. Non è facile sopravvivere a Eindhoven in un monolocale alternativo con un piccolo assegno mensile, come lo era sei o sette anni fa. I designer sono spinti alla professionalizzazione e alcuni stanno anche prendendo in considerazione altre città olandesi come Rotterdam, che offre spazi di lavoro più a buon mercato.
Salvatore Peluso: Qual è secondo te la posizione di Eindhoven nello scacchiere globale delle design week?
Tamar Shafrir: Credo che la Dutch Design Week sia per il design un’occasione di mettersi in discussione con pazienza e curiosità con un pubblico sia professionale sia generalista. Andarci non ha un costo proibitivo, ma non è nemmeno cosa da dilettanti. Non è kitsch né eccessivamente commerciale, ed è orientata alla presentazione e allo scambio di idee più che alla vendita. È una settimana del design senza troppi egocentrismi e troppi spettacoli. Non c’è un’installazione di Swarovski, non ci sono eventi per VIP. E poi permette al pubblico di osservare l’intero arco della carriera di un designer, dalla condizione di studente a quella di laureato, da “giovane talento” a designer autonomo, fino alle opere presentate nel contesto della storia del design, come nel Van Abbemuseum. Infine penso che sia uno degli ultimi luoghi dove la sperimentazione e la ricerca sono davvero in primo piano come elementi essenziali del processo progettuale.
Credo che la Dutch Design Week sia per il design un’occasione di mettersi in discussione con pazienza e curiosità con un pubblico sia professionale sia generalista.
Salvatore Peluso: Hai lavorato a qualche progetto per la DDW?
Tamar Shafrir: In questa Dutch Design Week condurrò alcuni dibattiti al Van Abbemuseum per conto del Programma per la promozione del talento dello Stimuleringsfonds Creatieve Industrie (la Fondazione olandese per la promozione dell’industria creativa), un progetto a cura di Jules van den Langenberg. Terrò anche una conferenza ai Dutch Design Week Talk sul tema Come progettare per un futuro luminoso? e un Vertical Talk con Fictional Collective a Plug-In-City. Infine mi unirò ai miei colleghi del Nieuwe Instituut del TAC Eindohoven per un giovedì dedicato al tema Machines of Freedom, “Macchine di libertà”: la presentazione del programma di ricerca “Work, Body, Leisure” (lavoro, corpo, tempo libero), che sarà sviluppato in una mostra per il padiglione olandese della Biennale Architettura di Venezia del 2018.
Infine ho scritto un testo per “La Terrasse”, un ciclo di mostre creato e curato dal designer Erez Nevi Pana, che mette concretamente in luce l’importanza della scrittura e della ricerca come tecniche progettuali, e quindi il fitto e costante scambio tra parole, idee, materiali e oggetti. La quarta edizione di “La Terrasse” adotta come tema la Fantasia, e perciò ho scritto sui differenti mondi fantastici rappresentati da Mariah Carey e Missy Elliott nelle loro composizioni poetiche e nei loro video.
Mi interessa molto il modo in cui le questioni dei beni, del lusso e dell’autoprogettazione si integrano nella cultura popolare. In questa Dutch Design Week condurrò alcuni dibattiti al Van Abbemuseum per conto del programma per la promozione del talento dello Stimuleringsfonds Creatieve Industrie (la Fondazione olandese per la promozione dell’industria creativa), un progetto a cura di Jules van den Langenberg. Terrò anche una conferenza ai Dutch Design Week Talk sul tema Come progettare per un futuro luminoso? e un Vertical Talk con Fictional Collective a Plug-In-City. Infine mi unirò ai miei colleghi del Nieuwe Instituut del TAC Eindohoven per un giovedì dedicato al tema Machines of Freedom: la presentazione del programma di ricerca “Work, Body, Leisure” (lavoro, corpo, tempo libero), che sarà sviluppato in una mostra per il padiglione olandese della Biennale Architettura di Venezia del 2018.
Salvatore Peluso: Parlami della tua ricerca all’Het Niewe Instituut.
Tamar Shafrir: Al Nieuwe Instituut il mio ruolo consiste nella ricerca e nell’innescare progetti che sfidano la cognizione comune, nella discussione e nella rappresentazione del design, oltre che nella ricerca nei settori della creatività in generale. Anche se al Nieuwe Instituut ci sono attualmente parecchi cicli di mostre e molti progetti che riguardano gli artefatti e la materialità (come il biennale New Material Award, che l’anno prossimo sarà nuovamente presentato a Eindhoven, e le mostre di Finders Keepers e di Designing the Surface), mi interessa di più il modo in cui dei concetti immateriali o che per lo più passano inosservati, le strutture di pensiero e le tecnologie dell’immagine condizionano il nostro modo di intervenire sul paesaggio materiale. L’anno scorso, per esempio, ho lavorato con i grafici Gijs de Heij e Manetta Berends per analizzare i sistemi di classificazione degli oggetti, dalla Naturalis historia di Plinio all’Encyclopédie di Diderot e al più contemporaneo schema ad albero dei prodotti di Amazon e ai codici doganali dell’Unione Europea. La nostra idea era che ogni sistema riflette la visione del mondo di uno specifico momento temporale, e che dobbiamo impegnarci criticamente nella complessità dei sistemi di oggi per considerare più seriamente come essi privilegino una versione dematerializzata dell’oggetto. Nel frattempo il ciclo Design Dialogues ha preso in considerazione aspetti come la traduzione digitale degli oggetti nel mondo fisico, per esempio su Instagram, con diversi gruppi di studio di cui fanno parte non solo designer autonomi e industrial designer, ma anche direttori creativi del mondo della moda, curatori d’arte, teorici e fotografi.
In futuro vorrei osservare più in profondità l’intreccio tra la politica e la metafora, e anche l’attività dell’artigianato e della fabbricazione. Le culture della fabbricazione sono importanti non solo come punti di riferimento ma anche come forme di lavoro di grande valore e di grande portata estetica. Per esempio l’apertura o la chiusura di una fabbrica di mobili o di automobili ha un interesse umano e sociale molto maggiore di un centro di distribuzione di Amazon o di un call center, anche se questi ultimi sono più significativi finanziariamente. Il dibattito negli Stati Uniti o sulla Brexit a proposito della tutela delle manifatture locali, o sul “costruire” la nazione in senso più ampio, indica quanto politicizzata sia questa espressione al di là della sfera del progetto. Chris Lee, uno degli attuali ricercatori del Nieuwe Instituut, sta tra l’altro lavorando a un progetto sulla produzione della moneta e delle forme di documentazione nella creazione della sovranità nazionale.
Mi interessa di più il modo in cui dei concetti immateriali o che per lo più passano inosservati, le strutture di pensiero e le tecnologie dell’immagine condizionano il nostro modo di intervenire sul paesaggio materiale
Salvatore Peluso: Segnalaci tre eventi della prossima DDW da non perdere
Tamar Shafrir: Al Van Abbemuseum la mostra “In No Particular Order”
presenterà 33 talenti sostenuti dallo Stimuleringsfonds Creatieve Industrie, con opere pionieristiche non solo nel campo del design ma anche in quelli dell’architettura, della cultura digitale e altri, il che può essere un buon modo di riaversi dall’overdose di design. Mi interessa anche decisamente la collaborazione tra l’IKEA e Piet Hein Eek in materia di “unicità in serie”. L’IKEA mi affascina da sempre in quanto ibrido tra barometro del mondo reale e potente motore per trasformare questa lettura iniziale in una realtà onnipresente. E quest’anno c’è anche un brillante programma di manifestazioni nel quadro del World Design Event di Eindhoven, che comprende eventi come Embassy of Robot Love e Embassy of Intimacy.
Infine devo raccomandare una manifestazione che non si svolge nemmeno a Eindohoven ma a Utrecht: l’Impact Festival, a cura di Natalie Kane e Tobias Revell, sul tema “Haunted Machines & Wicked Problems”
(macchine stregate e perfidi problemi), che presenterà uno straordinario programma di mostre e manifestazioni tra cui una conferenza di Adam Curtis, una performance di Royce Ng e alcuni stupendi progetti su schermo, tra cui i film The Fragility of Life di Simone Niquille e Alchemic Dialogue di Füsun Türetken, entrambi realizzati grazie a borse di ricerca del Nieuwe Instituut. Ci sarà anche una provocatoria installazione sugli ‘altoparlanti intelligenti’, gli algoritmi e la coesistenza con gli attori digitali intelligenti dell’artista del suono Wesley Goatley. Così come il design è fatto di belle ceramiche e di biomateriali sperimentali, riguarda anche l’atteggiamento verso le innovazioni del campo dell’alta tecnologia e la mediazione sul modo in cui entrano a far parte della nostra vita quotidiana.