Il libro più completo sull’utopia è probabilmente il saggio dello storico polacco Bronislaw Baczko. Scritto nel 1978, questo volume ripercorre la storia delle utopie partendo dall’ambiguità del nome nato dalla crasi tra eu-topos, il migliore dei mondi possibili, e l’ou-topos, il luogo che non esiste. O non esiste ancora.
L’utopia dell’utopia e la Biennale di design
Un primo bilancio sulla recente Biennale di Design londinese curata da Christopher Turner: dalle proposte più convincenti alla dimensione corretta della Somerset House.
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- Domitilla Dardi
- 05 ottobre 2016
- Londra
Proprio per questo suo carattere predittivo e immaginifico, l’utopia è il tema scelto dal curatore della prima Biennale di Design di Londra, Christopher Turner, che non manca di sottolineare la ferma volontà di mettere in relazione “architettura, design e ingegneria”, rivolgendosi a progettisti interdisciplinari proprio per la loro capacità di esprimersi attraverso quella che definisce una “un’immaginazione critica e ottimistica”. Critica e ottimismo, realtà presente e immaginazione, denuncia e fuga, possibile e impossibile: sono questi i poli entro i quali si muove il dibattito storico sull’utopia.
I riferimenti di Turner, lanciati ai Paesi invitati, sono quelli classici: partendo ovviamente da Thomas More e dalle città rinascimentali, si passa a Ebenezer Howard e la Garden City, alla città di domani di Le Corbusier, ma anche alle visioni di Loewy e Norman Bel Geddes per Chrysler e General Motors o alle cupole geodesiche di Buckminster Fuller. Non tutti gli autori contemporanei, però, hanno colto la riflessione teorica o, meglio, in molti non si sono sentiti da questa condizionati e hanno preferito superarla attraverso una propria proposta. In alcuni casi, le ipotesi sono state vere e proprie città utopiche, luoghi dove la terra di eu-topos trova il naturale proseguimento di una storia passata nel futuro.
È l’esempio del messicano Fernando Romero, ma anche dell’installazione spagnola che immagina realtà virtuali e aumentate per modificare la nostra percezione degli spazi urbani. C’è poi chi ha preferito sviluppare la propria alternativa al reale attraverso l’interazione, creando ambienti ludici nei quali muoversi (Pakistan, Polonia). Oppure l’occasione dell’utopia è stata quella di denunciare la criticità della situazione ambientale per immaginare possibili alternative ecologiche: Australia e Nigeria vanno in questa direzione, ma soprattutto ci va la soluzione eolica e sostenibile che è l’icona/manifesto scelta da Barber e Osgerby per rappresentare l’Inghilterra, paese promotore e ospitante della Biennale. E fin qui, l’impressione è stata spesso quella di uno sconfinamento disciplinare: quasi una Biennale di architettura in trasferta nel campo del design, nella quale la dimensione dell’oggetto funzionale viene meno rispetto alla costruzione di una percezione dello spazio.
Ma la parte viva di questa Biennale è rappresentata da chi ha saputo ragionare proprio sull’utopia stessa. A volte contestandone lo stesso statuto filosofico, a volte inducendo il visitatore a portare la propria visione; altre semplicemente sottolineandone la dicotomia con la realtà. Il reale come alter-ego dell’utopico è stato una risposta spiazzante che in alcuni casi ha funzionato meglio di qualunque evasione. È il caso del Libano – premiato dalla giuria internazionale col primo posto – che sceglie di riprodurre sul mezzanino fronte Tamigi una strada di Beirut, con il suo caos e le sue contraddizioni. Oppure del duo olandese Makkink & Bey che crea un diorama dove le sagome del quotidiano diventano quasi spettri del confine evanescente tra reale e ideale. L’impatto col vissuto è anche la scelta, vincente, della Russia, che svela i suoi archivi del design per la prima volta e ci mostra un mondo da guerra fredda, non connesso, cristallizzato, ma di enorme interesse e valore documentario per ricucire un tassello di storia mancante. In fondo, scegliere la realtà è anche una sorta di resa di fronte a un’utopia non così perseguibile; quasi a dire che alle schiaccianti contraddizioni del mondo contemporaneo neanche l’utopia può rispondere come alternativa perseguibile. E qui viene l’Italia, con un concept raffinato e sofisticato nel quale a un gruppo scelto di progettisti tricolori chiede di progettare una bandiera bianca come simbolo di cessazione dei conflitti, forse, più che di resa.
Ovviamente, poi, nel dibattito “reale versus utopia” le maglie larghe del tema hanno permesso di riversare obiettivi che proprio focalizzati non sono sembrati: dalle produzioni scandinave, mostrate come in un qualunque evento del contemporaneo London Design Festival sotto il pretesto di rappresentare “il migliore dei mondi possibili”, alla scelta dell’americano Cooper Hewitt, istituzione blasonata che con l’artificio di una “Immersion Room” ha trovato il modo di sfoggiare virtualmente la sua collezione di pattern di indubbio pregio, ma di dubbia pertinenza col tema.
In ogni caso, le proposte che sono sembrate più convincenti – insieme ai già citati archivi russi – sono le installazioni dove gli autori hanno voluto stimolare il visitatore a riflettere proprio sull’utopia dell’utopia, a volte criticandone la stessa essenza deontologica. Mi riferisco agli austriaci mischer’traxler che creano un’installazione poetica che ragiona e fa ragionare proprio sull’equilibrio instabile che governa le cose; al tedesco Grcic che non propone nulla, se non un ambiente di comfort – un salotto virtuale con camino scoppiettante digitale – per assecondare la riflessione e una personale via di uscita immaginaria (della serie l’utopia è l’altrove che costruiamo nella nostra mente); al giapponese Yashuiro Suzuki che ci invita a considerare altri punti di osservazione con opere che attivano l’illusorietà delle percezioni come disvelamento necessario per cambiare il nostro paradigma. La vera utopia dell’utopia, in fondo, sembra consistere in qualunque soluzione proposta. Perché, come sosteneva Baczko, le utopie sono in fondo “anacronistiche” per definizione: una volta che vengono esplicitate in forma vengono superate. L’unica soluzione praticabile, quindi, è quella del pensiero, della sua attivazione, e dell’utopia in quanto state of mind.
Un’ultima riflessione sulla Biennale intesa come manifestazione. La dimensione corretta della Somerset House ha permesso con le sue stanze consecutive di creare un percorso efficace, ragionevole, praticabile. Il confronto tra temi, autori e nazioni – ammesso che ancora abbia un senso parlare di “design nazionale” – è stato reso possibile.
Ma durante tutta la durata della visita, una proposta nata una decina di anni fa in Italia è affiorata alla memoria. Quando nel 2007 venne istituito dall’allora Ministero dei Beni Culturali il Consiglio Nazionale del Design, una delle proposte che sembravano essere prioritarie era quella di creare una Biennale del Design a Venezia. Il fascino dei Giardini della Biennale con i suoi padiglioni è stato un pensiero difficile da dimenticare durante la visita londinese. L’ennesima impressione di un’occasione perduta per la nostra cultura? Di certo il format culturale dei Giardini, che ha reso la Biennale di Venezia una tra le più longeve e indiscutibili istituzioni del nostro Paese agli occhi del mondo, dovrebbe essere maggiormente tutelato. La prima biennale internazionale di design con la formula per padiglioni nazionali avremmo preferito vederla proprio a Venezia. Ma forse anche questa è un’utopia.
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