Con un approccio volutamente non filologico, i curatori ‘inventano’ otto nuove categorie per mettere insieme, in gruppi semanticamente omogenei, una selezione di produzioni dell’architettura e del design. Ne scaturiscono altrettante piccole sezioni, suddivise attraverso il percorso dell’allestimento, in cui ciascuna categoria corrisponde a un’azione o tecnica progettuale sulla materia: stacking (impilare), weaving (tessere/intrecciare), blowing (soffiare), moulding (plasmare), connecting (connettere), folding (piegare), engraving (incidere), tiling (rivestire, disporre).
All’interno di ciascun insieme troviamo pezzi recenti e riconosciuti del design e immagini e modelli di architetture contemporanee o di sue parti. Sullo sfondo una raccolta di citazioni, attraverso foto storiche riferite ad archetipi, e all’ingresso una bella vetrina con disegni di progettisti storici e una scaffalatura con modelli di progettisti contemporanei, che intorno all’indagine formale a partire dalle tecniche hanno impostato il loro lavoro: dalla capanna di Semper, a Lewerenz, a Schmitthenner, fino alle ‘casette’ in legno di Michele De Lucchi e agli esperimenti didattici ‘Structure and Pattern’ sulle connessioni di Adam Caruso all’ETH.
Questa ricca miscellanea di oggetti e progetti sollecita una riflessione proprio sull’efficacia delle tassonomie scelte per mettere insieme le opere mostrate: per il design le categorie di ‘operazioni’ sulla materia trovano una immediata corrispondenza semantica con gli oggetti mostrati, più facilmente che per l’architettura, dove alcune categorie sfumano inevitabilmente l’una nell’altra e dove il rapporto tra corpo e superficie è più complesso. In tutti però il richiamo alle tecniche risulta il leitmotiv della mostra e la chiave per riflettere anche su quale ne sia il limite.
Veniamo quindi al punto centrale della riflessione, che ruota attorno al rapporto tra tecniche e primato della decorazione – come vero ultimo dominio del progettista, in un possibile implicito rimando della mostra agli studi sulla tettonica di Frampton degli anni ’90 e al ruolo del rivestimento, quindi alla superficie degli artefatti.
Forse sarebbe stato più efficace se le categorie proposte per l’architettura fossero state rappresentate attraverso una rassegna sulle facciate, come campi più adatti alla reinterpretazione semperiana delle azioni proposte. Viceversa alcune azioni – proprie soprattutto di processi di formatura di prodotti – come la plasmatura o la soffiatura – trasferiti all’architettura contemporanea in mostra, ne hanno evidenziato una sua inevitabile ibridazione con gli oggetti di design; con una conseguente riduzione a invenzioni non così lontane dalla banalizzazione del concept.
L’auspicio è che questa occasione non sia un episodio isolato ma stimoli nuove riflessioni e approfondimenti sui rapporti tra forme e tecniche, nella concezione come nella produzione, degli artefatti.