Maria Cristina Didero: Se doveste raccontarlo a un bambino, qual è il tema di questa biennale dal titolo “Faraway, So Close”?
Angela Rui e Maja Vardjan: Il significato di questo titolo ha più livelli di lettura, ed è stato pensato per raggiungere un’audience più ampia possibile. Si potrebbe speculare all’infinito sulla sua connotazione, sulla frizione che produce, sulla contraddizione di termini agli antipodi e attorno al suo effetto “perturbante”. Ma se dovessimo raccontarlo a un bambino, diremmo che si tratta di una storia che ha inizio lontano lontano, in sette luoghi poco conosciuti ma, per loro natura, speciali. E che potrebbero aprire la fantasia di qualsiasi persona, anche quella di chi arriva da lontano lontano dove tutto appare diverso. Questo vale solo per i bimbi però.
Maria Cristina Didero: Ottimo. E per gli adulti invece?
Angela Rui e Maja Vardjan: “Faraway, so close” indaga ciò che è remoto, ma non ancora abbastanza distante per penetrare la nostra memoria. Sta ancora aspettando per una connotazione semantica. “Faraway, so close” guarda ciò che è vicino, ma così vicino nel tempo e nello spazio da non catturare la nostra attenzione, né le nostre intenzioni. “Faraway, so close” sonda la storia recente, la resilienza di un passato prossimo che comincia a lasciare pallide tracce da reinterpretare. Guarda all’impegno di un nuovo schema storico di riferimento “che leghi l’umanità a una nuova storia condivisa, fatta di diritti umani universali e diritti intrinsechi alla Natura” (Jeremy Rifkin). “Faraway, so close” si basa sulla possibilità di far permeare la dimensione umana nel disuso e nel banale, e indirizzarla sulla possibile significazione dell’extraurbano.
Maria Cristina Didero: Come sono stati scelti i temi cardine?
Angela Rui e Maja Vardjan: Il paradigma iniziale risponde alla constatazione che, sebbene la città rimanga il modello dentro cui si discute e viene interpretata l’evoluzione della società contemporanea, e se è vero che il numero di persone che popolano i grandi centri urbani continua a crescere, è vero anche che negli ultimi anni è cominciata a crescere, e i dati ne prevedono un ulteriore incremento, la percentuale di persone che – al contrario – dalla città si spostano in territori extraurbani. Questo avviene per diversi fattori, come la povertà, economica e di offerta, che oggi le grandi città emanano – in particolare in un contesto europeo. Si tratta di un fenomeno del tutto nuovo: individui giovani, informati, emancipati, cresciuti secondo un modello urbanizzato che porteranno questi valori in altri contesti del tutto anonimi. Questa premessa semplicemente per far capire come abbiamo interpretato i luoghi che andremo a occupare.
Maria Cristina Didero: Perché questo titolo ha una valenza particolare in un paese come la Slovenia oggi, e alla luce della sua storia passata?
Angela Rui e Maja Vardjan: La Slovenia appare come un paese molto frammentato per quando riguarda la diversificazione del suo paesaggio, delle tradizioni o addirittura dei dialetti ancora in uso. In poche ore d’auto, si attraversano regioni completamente diverse. E questa è una condizione molto specifica all’interno del territorio europeo. Allo stesso tempo le persone del luogo non percepiscono questa condizione come un’opportunità: quando tutto è così vicino viene semplicemente percepito come scontato, dunque location davvero speciali rimangono inesplorate. A parte questa specificità territoriale, la Slovenia è un paese giovane che è si è reso indipendente nel 1991. L’esperienza di una forma specifica di socialismo, quella della ex Jugoslavia che ha attivato processi di modernizzazione e cambiamenti sociali profondi è ancora incastonata nella coscienza delle persone, nuove generazioni incluse. Si tratta di un Paese che ha testato tre diversi modelli – sociale, economico e politico – nell’ultimo secolo. Stiamo mettendo in discussione anche questa storia, l’esperienza di diversi sistemi sociali che ne hanno cambiato le sorti, che di fatto sono piuttosto recenti, ma allo stesso tempo risultano oramai inadeguati.
Maria Cristina Didero: Qual è l’approccio di questa biennale curata a quattro mani?
Angela Rui e Maja Vardjan: La proposta fin da subito era stata quella di dislocare la biennale, in termini generali di forzarne il formato andando ad occuparci di ciò che è extraurbano. E questo perché, cominciando ad indagare la Slovenia e le sue caratteristiche, colpisce immediatamente la sua dimensione ridotta, come ad esempio il fatto che i suoi abitanti sono all’incirca due milioni, ovvero gli stessi di una città come Milano. Mentre il suo territorio è incredibilmente ricco di situazioni riconducibili a temi di ampio respiro che possono essere discussi a livello globale, a partire dalla ricchezza naturale che questo paese possiede: il 60% è foresta, il 40% dei terreni sono coltivati, esistono 11.000 caverne registrate, 28.000 km di corsi d’acqua. Il governo sta dedicando la maggior parte dei fondi economici allo sviluppo del settore agricolo e del turismo. Allo stesso tempo la Slovenia è un paese che soffre una pesante crisi economica che si autoalimenta, e che spesso consiste nel fallimento della speculazione urbana e nell’esaurirsi di modelli di sviluppo che nel secolo scorso erano stati fonte di ricchezza, come l’estrazione mineraria che aveva dato vita a interi paesi cresciuti a ridosso delle miniere, oramai tutte in chiusura. Dunque nel momento in cui la proposta è stata accettata era chiara e inevitabile la necessità di un curatore il loco in grado di gestire in modo non banale la corrispondenza del tema generale e necessariamente inserito nel contesto sloveno per poi indirizzare ogni decisione.
Maria Cristina Didero: Questa la ragione del lavoro collettivo, ma come si è sviluppato?
Angela Rui e Maja Vardjan: Noi abbiamo lavorato fin da subito instaurando un dialogo serrato, cominciando da un hardware che prevedeva l’accostamento di un luogo (o un genere di luogo), una voce slovena (Profile) che non avesse nulla a che fare con il mondo del design o dell’architettura, ma professionalmente concentrato in progetti autorevoli e stimolanti, e un professionista (Translator) scelto per la capacità espressa dal proprio lavoro di poter reagire al meglio sul tema che a quel punto emergeva, utilizzando le discipline come medium narrativo per la messa a fuoco del problema. Dunque si è trattato per ora di condurre in anticipo una ricerca a tappeto su luoghi e possibili profili locali, e una volta individuati, di mettere in scena una regia generale prevedendo l’inserimento – finalmente – del mondo del progetto. È in primis un esperimento di formato, che trascina i progettisti al di fuori dalla comfort zone dentro cui ci si muove generalmente, e “a servizio” di mondi per tutti noi poco esplorati.
Maria Cristina Didero: Bene la premessa, ma in pratica. Datemi un esempio…
Angela Rui e Maja Vardjan: Dunque se si lavora all’interno di una caverna, aldilà dell’approccio progettuale che ovviamente rimane territorio del progettista, il tema non sarà “caverna” ma Underground Release, provando a indagare che significato oggi quel luogo conosciuto ai più come un setting scenografico illuminato drammaturgicamente negli anni Sessanta, oggi possa essere visto con altri occhi. E di esempi ce ne sono molti: dalle coltivazioni di vegetali della London underground che fornisce i ristoranti in superficie, al datacenter di WikiLeaks ospitato nel Pionen White Mountains di Stoccolma, in origine rifugio antiatomico. O se si tratta di foresta, Occupying Woods: come possiamo abitarla realmente, trasformarla in piattaforma operativa al di fuori del romantico uso turistico o d’isolamento che immediatamente colma la nostra immaginazione. O ancora, come si può utilizzare il contesto di una miniera in chiusura (e i suoi spazi meravigliosi) per discutere di Post-Utopia, tanto in un paese come la Slovenia che è stato parte della ex-Jugoslavia, quanto allargando il suo significato a un contesto più strettamente teorico-disciplinare.
Per quando riguarda il loro sviluppo all’interno della biennale, questi progetti costituiscono il corpo centrale della discussione, e l’evento è utilizzato come piattaforma di produzione di conoscenza: ci piace l’idea di poter mantenere una struttura leggera, volutamente contenuta – che di fatto si confà alle prestazioni che il paese può mettere in atto – in modo da poter indirizzare le risorse al meglio. Gran parte della ricerca avrà spazio anche nella pubblicazione che accompagna la mostra. Ma ci saranno poi ulteriori eventi collaterali che andranno a dinamizzare il calendario della Biennale.
Maria Cristina Didero: Avete scelto sette creativi (designer e architetti) che si confronteranno con sette esperti in diverse discipline, si va dalla criminologia a un atleta estremo, mi hai detto. Lo trovo un taglio fresco e interessante sulla carta e pieno di sorprese. Cosa succederà? Quali sono le vostre aspettative? Cosa pensate di presentare all’interno degli spazi?
Angela Rui e Maja Vardjan: Il tutto è stato deciso a tavolino, e i sette progettisti hanno accettato con grande entusiasmo l’idea di dialogare con profili che ancora non conoscevano, e quindi con “mondi” per la maggior parte sconosciuti. Le sette coppie: Studio Formafantasma (Andrea Trimarchi, Simone Farresin, Amsterdam) e Andrej Detela, fisico teorico di fama internazionale per Underground Release; Matali Crasset (Parigi) e Matej Feguš, esploratore, educatore e imprenditore illuminato, per Occupying Woods; Point Supreme (Konstantinos Pantazis, Marianna Rentzou – Atene) e Iztok Kovač, ballerino e coreografo, fondatore di EnKnapGroup, per After Utopia; Didier Faustino (Parigi, Lisbona) e Mojca Kumrdej, scrittrice e giornalista, per Brand New Coexistance, Studio Mischer’traxler (Katharina Mischer e Thomas Traxler, Vienna) e Klemen Košir, ricercatore nell’ambito delle catene alimentari come connettori storico-sociologico per Countryside Reloaded; Studio Folder (Marco Ferrari, Elisa Pasqual, Milano) e Renata Salecl, sociologa e filosofa specializzata in criminologia, per Resilience of the Past; Odoardo Fioravanti (Milano) e Marin Medak, giovane sportivo che attraversa l’Oceano in Kayak, per New Heroes. C’è poi da aggiungere che ogni figura slovena è stata selezionata anche per l’impegno personale messo in campo nella propria professione, per il proprio carisma. Il loro coinvolgimento ci ha permesso di entrare in contatto con le autorità locali, di raggiungere la loro attenzione e di avere accesso a programmi già in atto. Una volta circoscritto il personaggio abbiamo capito chi invitare tra architetti e designer. La selezione è volutamente europea, questo per poter condividere un pensiero che ci riguarda da vicino, per restringere il progetto e avere dunque la possibilità di contestualizzare il tema in modo più specifico, rifacendoci a qualità di territorio e di scala proprie del nostro habitat.
Open call for application
Deadline: 10 luglio 2016
25.5.2017–29.10.2017
BIO 25
25th Biennial of Design
Ljubljana, Slovenia