“Progettare per non essere progettati”: sembrerebbero di Massimo Banzi ma in realtà sono parole di Giulio Carlo Argan, uno degli storici che si sono maggiormente spesi per la definizione di un design democratico, in grado di unire al dato tecnico anche quello estetico e di rendere il bello alla portata di tutti.
Maker: la Great Exhibition
Sulla necessità di risolvere un progetto anche in senso formale le strade del maker e del designer sembrano dividersi. Un po’ come accadde nel 1851 a Londra, durante la Great Exhibition, quando la nuova tecnologia della macchina proponeva ancora forme che riecheggiavano stili del passato.
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- Domitilla Dardi
- 17 ottobre 2014
- Roma
Lo stesso spirito democratico che sembra oggi fondare il pensiero dei maker internazionali. D’altra parte come potrebbe non essere democratico un fenomeno come quello della Maker Faire di Roma che prevedeva di accogliere 45.000 visitatori e ne ha contati più del doppio? Tuttavia, sul versante estetico e sulla necessità di risolvere un progetto anche in senso formale le strade del maker e quella del designer sembrano decisamente dividersi. Dalla stretta angolazione di chi ama e si occupa di design, infatti, molte delle oltre 600 proposte presenti a Roma sono apparse giochi tecnologici di indubbio fascino, anche nelle aspettative future, ma intrisi di un grado di approssimazione formale spesso ancora dilettantesca.
D’altronde, sul sito ufficiale della manifestazione, i maker stessi si autodefiniscono: “hobbisti tecnologici del XXI secolo che s’interessano di tecnologia, design, arte, sostenibilità, modelli di business alternativi”. Proviamo allora a scorrere i punti di questa dichiarazione, ripassando mentalmente le immagini che nelle maglie strette del ricordo sono rimaste impigliate a distanza di qualche giorno.
Di tecnologia sicuramente a Roma si è parlato e se ne sono viste manifestazioni molteplici. Per esempio, robot che seguono tracce sviluppando sensorialità artificiali che rilevano calore, acqua, segni di pennarello o movimento. Possibili applicazioni? Risposta corale: infinite! Dalla medicina ai tostapane, dall’agricoltura alla domotica. A proposito di quest’ultima, sulla casa del futuro è stato realizzato un hackathon, maratona tecnologica che ha visto coinvolte tre aziende – Elica, Slamp e Valcucine – per assegnare premi ai migliori progetti tecno-domestici.
Fa poi piacere scoprire che esiste un Istituto Italiano per la Tecnologia che finanzia studi di giovani neo-laureati per indagare nuovi materiali bio-plastici o sensori che sembrano attrezzature per rabdomanti del terzo millennio. D’indubbio impatto per il grande pubblico sono stati gli automi semoventi e gli abiti che, invece di brillare di cristalli, usano led che interagiscono con chi li indossa (CuteCircuit).
A proposito di hardware open source – continuando a citare la maker-definizione – non poteva mancare la rivoluzione formato tessera: ovviamente quell’Arduino che ha cambiato tutto, qui presente nelle sue applicazioni base per neo-adepti, ma anche in quelle più avanzate per gli esperti. Una pioggia di stampanti 3D ha poi dimostrato la loro crescente diffusione e potenzialità. Anche in termini di materie prime utilizzabili: non più solo plastica, ma anche sostanze organiche e cibo, dalla pasta al cioccolato con progetti interessanti, per quanto sembri improbabile che, almeno in Italia, la vecchia Imperia della nonna venga sostituita da una 3D Printer.
Sul versante sostenibilità si sono rivelate alcune contraddizioni di questo mondo troppo ampio e libero da riuscire a proporre un programma coerente. Da un lato, infatti, progetti convincenti nel loro essere animati da ottimi propositi. Tra tutti ci piace citare il VentolONE di Open Galileo, un kit per lo sfruttamento dell’energia eolica di facile reperibilità e assemblaggio; e WASP, stampante di grandi dimensioni che utilizza estrusi in argilla per realizzare abitazioni anche in Paesi privi di materiali industriali e manodopera specializzata.
Dall’altro lato, il più banale degli scetticismi viene proprio dall’enorme quantità di piccoli gadget in plastica grezza che hanno affollato decine di stand e metri quadri. Mediamente più brutti e inutili di quelli prodotti dal modello industriale imperante che il movimento degli inventori 2.0 vorrebbe superare, ma di certo non con una proposta di decrescita. Un modello che ci porta proprio a quel design citato, ma allo stato attuale, ancora molto poco presente. La sensazione, infatti, è di essere in un punto epocale di svolta dove però all’avanzamento di una nascente tecnologia corrisponde un’impasse della forma. In altre parole, il mezzo non sembra ancora aver trovato la sua espressione più propria e la corrispondente invenzione di un nuovo linguaggio.
Un po’ come accadde nel 1851 a Londra durante la Great Exhibition, quando la nuova tecnologia della macchina serviva a realizzare merci che apparivano ancora frutto della produzione a trazione animale o artigianale, con forme che riecheggiavano stili del passato facilmente riconoscibili e comprensibili. Il fruitore di allora veniva rassicurato con ornamenti e modanature; ma noi, abbiamo davvero oggi bisogno di queste sorprese da merendina? E sarà questo a far scaturire i famosi modelli di business alternativi? La risposta, dietro ogni entusiasmo collettivo, sembra ancora nei fatti fumosa. Forse c’è solo da aspettare e augurarsi che “la futura efficienza tecnica susciterà una nuova immaginazione” come sosteneva Baudrillard (Le système des objects, 1968).
Fortunatamente, a ricordare la differenza tra innovazione autogestita in un esperanto progettuale e quella governata dalla maturità di un linguaggio professionale, ha prontamente provveduto la mostra “Make in Italy”. Un’esposizione del meglio della produzione italiana, da Olivetti sino alla prima auto in 3D printing, sulla via dell’innovazione tecnologica capace, come negli intenti dei curatori Massimo Banzi e Riccardo Luna, di “raccontare il passato per ispirare il futuro”. E di dare all’Italia il giusto ruolo di protagonista in questo racconto forse non ineccepibile dal punto di vista filologico, ma efficace nella struttura anche grazie all’allestimento dei dotdotdot. Bello, funzionale e risolto come le cose progettate e pensate nella loro interezza.
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