La Sala del Capitolo del monastero domenicano di San Nicolò, a Treviso, custodisce un dipinto trecentesco che raffigura un cardinale con gli occhiali.
Si tratta, a quanto pare, della prima fonte iconografica di questo soggetto nell’arte occidentale, rappresentazione di quello che plausibilmente è stato il primo tipo di occhiali—dei pince-nez, appollaiati sulla punta del naso del prelato. Occhiali di questo tipo [1] furono inizialmente portati da studiosi ed esponenti del clero, ma divennero gradualmente accessibili agli artigiani e ai piccoli commercianti. La loro invenzione fu celebrata in quanto rendevano più agevole il lavoro, ma il loro buffo aspetto è stato spesso oggetto di satire e ironia.
Sette secoli sono passati, ed eccoci a inventare altri tipi di visione. Nell’aprile di quest’anno, il collaudo dei Project Glass di Google—un reticolo leggerissimo tramutato in computer indossabile—ha sollevato una catena di reazioni che vanno dallo sbigottito allo zelante, dallo scettico all’allarmato. C’è chi è soggiogato dal fascino trendy dell’ambient computing, uno schermo miniaturizzato semitrasparente sospeso davanti agli occhi; e c’è chi è incredulo—chi mai può voler indossare in pubblico delle simili protesi aumentate?
C’è poi una giustificabile preoccupazione per questioni di privacy e sorveglianza, nonché apprensione per la salute: al contrario dell’invenzione originaria, che di certo accresceva la capacità dell’uomo di vedere, non è che questi siano i primi ‘occhiali’ che rischiano di danneggiare la vista?
Se l’informatica da indossare è in via di sviluppo ormai da anni, con Glass, Google è la prima società a portare la visione aumentata nello spazio del consumo. Ci saranno, e ci sono già, altri esempi: Baidu Eye [2] in Cina, e il prototipo di The Technology Partnership [3] a Cambridge, Regno Unito. E se possiamo contare sull’accettazione di qualsiasi tecnologia che abbia inizialmente suscitato paura e stupore—l’elettricità, il telefono, l’immagine in movimento—sappiamo che la computerizzazione pervasiva diventerà... pervasiva. Allora perché non anche quella che ha a che fare con la vista? Così come la diffusione degli occhiali nel Rinascimento iniziò con un’élite di monaci e prelati italiani, Google ha limitato attentamente la diffusione di Glass ai big della tecnologia della Silicon Valley e al loro circolo. Ha poi gestito con grande attenzione il primo lancio di prova, scegliendo una serie limitata di ‘esploratori’ sulla base dei loro responsi a [#ifihadglass], il che ha prodotto una sorta di effetto “biglietto vincente”, come per La Fabbrica di Cioccolato, secondo il principio per cui la scarsità genera il desiderio.
Questo ha fornito a X Lab (il reparto di ricerche segrete della Google) un gruppo di controllo selezionato, dal cui feedback e dalle cui immagini poter apprendere. Inoltre, l’accesso limitato alla stampa ha minimizzato possibili critiche iniziali, mentre la comunità tecnologica era in preda all’eccitazione nel vedere gente come William Gibson e Bruce Sterling sfoggiare un oggetto che proveniva direttamente dal mondo delle speculazioni fantascientifiche. Questa vena di esclusività riflette l’essenza intima del prodotto, come se Glass diventasse un paio di occhiali a specchio per un mondo a specchio che esiste solo per chi li indossa. [4]. Ne I nuovi feriti della mente, Catherine Malabou cita le parole di Guillaume Apollinaire dinanzi alla propria radiografia: “Come può essere! È stata fatta una radiografia della mia testa. Io, un essere vivente, ho visto il mio cranio—non è forse qualcosa di nuovo?”. Il teoreta francese Stéphane Vial [5] sottolinea che le rivoluzioni tecnologiche scuotono “le strutture percettive”. A tutti gli effetti, Glass interagisce con la percezione in forme che potrebbero alterare e modellare la nostra esperienza:
Il suo controllo richiede un forte impegno fisico da parte di chi lo indossa: un deciso cenno del capo per accendere il congegno e comandi vocali in un linguaggio preciso e inflessibile (“OK Glass, fai una foto”), senza parlare della necessità di una focalizzazione ripetuta a distanza ravvicinata dal volto.
Glass continua il perseguimento di un vedere e di un vivere in una realtà aumentata, il che altera il nostro senso dello spazio, del luogo e dell’essere-nel-mondo.
Consente di produrre fotografie a vista d’occhio e filmati con le mani libere, con implicazioni per la rappresentazione delle immagini, ma anche per la nostra percezione della distanza, che nell’era digitale è già disintegrata.
Ciascuno di questi punti implica una tecnologia portata più vicino ai nostri sensi, obiettivo dichiarato di Project Glass. Se la tecnologia va resa più intima, deve far sentire a proprio agio, una cosa che Google ha enfatizzato nel marketing del prodotto, con l’emozionante video promozionale How It Feels.
Chiaramente, non è facile creare qualcosa di abbastanza leggero e raffinato da non apparire invadente, e che la gente voglia indossare, incorporando al tempo stesso un chip, una fotocamera, un microfono e un altoparlante dentro a una montatura. I primi resoconti [6] esprimono sorpresa per l’eleganza del design industriale, ma anche qualche inconveniente nell’utilizzo—una certa prevedibile goffaggine dovuta alla nuova interfaccia gestuale.
Glass è sostenuto dalla promessa che il suo display, il cui uso prevede una postura eretta, creerà meno disturbo e sarà più coinvolgente sul piano sociale dell’uso dello smartphone, che costringe a reclinare il capo. Ma quello che sembra davvero offrirci è un comodo accesso alle informazioni che richiedono comunque parte della nostra attenzione. Mentre l’utente si concentra sullo schermo ravvicinato, il mondo esterno esce dal campo focale. Solo se interpretiamo “vedere più chiaro” come metafora per comprendere il mondo in modo più dettagliato Glass può conservare il potenziale di amplificare l’effetto di quanto ci circonda. ‘Aumentati’ o no, al momento abbiamo solo un cervello e due occhi. Cosa significa essere ‘aumentati’? Il fatto che la descrizione di realtà aumentata indiche che “tale tecnologia funziona con l’innalzare la nostra attuale percezione della realtà” lascia trasparire quale sia l’ideologia di chi alimenta Wikipedia. Linguisticamente e concettualmente, l’idea di ‘aumentare’ la realtà implica che il mondo abbia bisogno di aggiunte, di cose di cui prima era carente; che la sovrapposizione di dati sia perciò una cosa decisamente positiva; e che esista un’opinione condivisa su cosa questa singola ‘realtà’ sia. Naturalmente, l’esperienza effettiva ci dice che le nostre realtà sono molteplici, in evoluzione, soggettive, e già ricche d’informazioni. L’informatica pervasiva rafforza la sovrapposizione dei campi del fisico e del digitale, che già sperimentiamo come confluenti. Come scrive il cyborgologo David Banks, siamo “sempre già aumentati” [7].
Quello che una tecnologia come Glass porta con sé, allora, è una maggior quantità di dati in sovrapposizione, la cui storia culturale corre persino più a fondo di cyberpunk e RoboCop. Quando nel 1901 lo scrittore di fantasy L. Frank Baum immaginava un paio di occhiali elettrici capaci di rendere visibili le caratteristiche morali delle persone facendole comparire sulle loro fronti, poneva come prefazione al romanzo The Master Key la seguente domanda: “Queste cose sono del tutto improbabili, questo è certo, ma sono veramente impossibili?”.
Per tutto il secolo successivo, i tecnici informatici si sarebbero trastullati con prototipi di ambienti virtuali come il primo, primitivo esemplare di display montato sulla testa, basato sul modello del binocolo, creato da Ivan Sutherland nel 1968, e gli occhiali e guanti per videogame, inventati da Lanier e Zimmerman nel 1989. Come balzare dal fantasy della “realtà virtuale” a un’applicazione per la vita di tutti i giorni? Come passare oltre l’ingombrante congegno per la realtà aumentata del pioniere Steve Mann per creare una tecnologia il cui materiale—questa l’idea—si dissolverà, mentre l’informazione è resa sempre presente? Tra i primi produttori di tecnologia, Sony aveva previsto negli anni Novanta che la gente avrebbe voluto schermi di piccole dimensioni, ma è solo oggi, con la libertà di roaming del wi-fi, che portabilità e portatilità iniziano a sembrare pratiche.
Le tecnologie digitali nate dalle società connesse in Rete portano a un’ulteriore frattura della visione: uno scarto nella comprensione ottica che è manifesto, in modo vario, negli occhi meccanici e nelle fotocamere incorporate, nelle mappe militari e nelle immagini satellitari, Google Earth e Street View. Le ripercussioni visuali di queste tecnologie fanno parte di ciò che The New Aesthetic [11] prende come soggetto. Con una visione meccanica, la prospettiva umana è spinta fuori campo: il potere di vedere è dato agli oggetti. Vediamo allora quello che vedono gli oggetti, o parte di ciò, e gli oggetti ci restituiscono direttamente lo ‘sguardo’; come sostiene James Bridle, siamo ridotti a “sbracciarci verso le macchine” [12].
Glass non è altro che un esempio in più dello spostamento contemporaneo della visione. La vista-occhio della fotocamera sembra farci tornare al punto di vista umano, ma rimanda anche alla macchina; l’occhio di Google guarda con voi. L’occhio meccanico interpreta quello che vedete, passando queste informazioni a una rete di tecnologie controllate da Google. Teju Cole [13] scrive su ciò che la fotografia significa oggi: “È l’occhio neutrale e panoptico dello stesso Google a farsi fotocamera”. Mentre l’occhio meccanico spesso vede lo stesso mondo di chi lo indossa—a parte quei segni, come i codici qr, di un mondo leggibile dalle macchine—, quello che Google interpreta e scava da questa visione rimane nascosto. Google è celebre per massimizzare tutti i dati disponibili per migliorare la ricerca, gestendo, per esempio, i dati Google Books attraverso degli algoritmi di ricerca. Gli algoritmi saranno di sicuro utilizzati attraverso i dati-immagine ottenuti da Glass, per migliorare la ricerca per immagini, luoghi o mappe. Inoltre, i vostri dati visuali diventano aperti all’intrusione del marketing, influenzando le strategie commerciali, ma anche migliorando l’intelligenza della macchina. Siamo pronti a far passare di mano i dati primari che sono alla base della nostra visione?
Mentre il telefono ha portato la voce all’orecchio, Glass porta l’occhio all’occhio. Associati alla riunione simulata di Google Hangouts, amici e parenti possono vedere dalla vostra prospettiva, mentre voi—così promette il video promozionale—arrampicate su una parete di roccia, danzate in un balletto, o, più probabilmente, preparate la cena o giocate coi bambini. È l’intensificazione della documentazione del sé.
La frammentazione della distanza in relazione ai media digitali è un’idea ben collaudata. Possediamo già un senso di intimità ambientale con gli amici, che fisicamente non sono né vicini né lontani. La caratteristica del filmato a vista d’occhio restringe la distanza tra sé e gli altri—e silenziosamente, anche la distanza tra sé e la macchina scompare. Tracciando la sua discendenza dalla produzione di immagini tramite smartphone, i filmati di Glass si focalizzeranno sul cibo, sul fitness, sulla famiglia (e sul sesso), ma soprattutto sul volto umano. Questo spinge all’interno dell’immagine l’uso della tecnologia di riconoscimento dei volti che, una volta collegata con le informazioni personali disponibili in Rete, potrebbe far sembrare Glass non così lontano dagli occhiali a moralità aumentata di L. Frank Baum.
Fino a quando la tecnologia indossabile non diventerà più diffusa e meno appariscente, Glass continuerà a rappresentare un’intrusione nel mondo delle interazioni fisiche, un accessorio quasi-cyborg che suscita sospetto nell’essere umano in borghese. Quando, nel 1985, la teorica femminista Donna Haraway ha scritto nel cyborg- manifesto che “il problema principale con i cyborg è che sono i figli illegittimi del militarismo e del capitalismo patriarcale”, credeva che l’amalgama uomo-macchina potesse trascendere il suo punto di partenza: “I figli illegittimi sono spesso estremamente infedeli alle loro origini. I loro padri [14], dopotutto, non sono essenziali.”
Ma Google deve rimanere essenziale per Glass; è Google, non Dio, a diventare l’Occhio che tutto vede. Come l’immagine del cardinale occhialuto con cui abbiamo iniziato, Glass solleva ancora una volta la domanda su chi riceva il potere della vista. Glass crea una complessa stratificazione di sguardi: quello che getta sul mondo chi lo indossa; quello della macchina che interpreta il mondo; e lo sguardo metaforico della tecnologia predittiva che sembra vegliare sul portatore dell’oggetto. E dietro a questi tre piani c’è Google.
Al centro del dibattito di Crary sull’osservatore ottocentesco c’è il concetto di controllo. Scrive l’autore in Suspensions of Perception [15]: “Una volta stabilito che la verità empirica della visione risiede nel corpo, la visione può essere annessa e controllata da tecniche esterne di manipolazione e simulazione”. Viviamo già in società sorvegliate. Siamo già filmati e, nella maggior parte dei casi, non ce ne accorgiamo.
Note:
1. Vincent Ilardi, Renaissance Vision from Spectacles to Telescopes, the American Philosophical Society, Philadelphia 2006
2. mashable.com
3. www.guardian.co.uk – 10/09/2012
4. berglondon.com/blog – 19/12/2012
5. thesocietypages.org/ cyborgology 21/02/2013
6. dcurt.is/glass
7. thesocietypages.org/ cyborgology 01/03/2013
8. speedbird.wordpress.com – 07/05/2013
9. Mark Graham, Matthew Zook, Andrew Boulton, Augmented reality in urban places: contested content and the duplicity of code, 2012, in Transactions of the Institute of British Geographers, vol. 38, no. 3, 07/2013
10. Jonathan Crary, Le tecniche dell’osservatore. Visione e modernità nel XIX secolo, Einaudi, Torino 2013; Techniques of the Observer: On Vision and Modernity in the Nineteenth Century, MIT 1992
11. new-aesthetic.tumblr.com
12. booktwo.org/notebook/ waving-at-machines
13. thenewinquiry.com/blogs/dtake/ googles-macchia
14. whitemenwearinggoogleglass. tumblr.com
15. Jonathan Crary, Suspensions of Perception. Attention, Spectacle, and Modern Culture, MIT 1999