Domus: Perché fare cose sbagliate? Ci sono ispirazioni e precedenti nel fare cose sbagliate?
Thomas Kelley: Diceva bene Andy Warhol: “Quando si fa una cosa decisamente sbagliata si scopre sempre qualcosa”. A prima vista ‘sbagliato’ è solo un punto di vista di contrapposizione e controintuitivo; un po’ come un bambino che dipinge sulle pareti bianche del soggiorno. Per prima cosa bisogna ammettere che lo sbaglio ha una controparte giusta. Ma lo sbaglio non si misura dal peso della sua gravità quanto dalla sua distanza dal giusto. Come nella serie Perfect/Imperfect di Roy Lichtenstein, è decisivo il gesto. Da architetti ciò che tipicamente riteniamo sbagliato in un progetto dipende dall’imprecisione geometrica e dal mancato controllo delle tolleranze, per esempio. Noi ipotizziamo che la maggior parte delle cose possa essere sbagliata e nel nostro lavoro miriamo a disciplinare questo potenziale per dare vita a nuove forme di costruzione e di osservazione.
Carrie Norman: Il nostro ‘sbagliato’ è collegato al controllo. Oltre al Pop ci piace il modo in cui i pittori rinascimentali e barocchi infrangevano regolarmente le regole della prospettiva. Ciò ci permette di adottare l’errore, lo ‘sbaglio’, come prodotto regolato che richiede pratica, esperienza. Le tecniche prospettiche di Andrea Pozzo nella cupola di Sant’Ignazio hanno creato illusioni spaziali straordinarie. Insomma, se solo avessimo la fortuna di passare un anno a Roma…
Domus: Che cos’è per voi l’‘illusione’ e come si esprime dal punto di vista visivo e formale?
CN: È un effetto che si muove tra forma e percezione. Nel nostro lavoro, e in particolare in questo progetto, ci interessa ciò che può provocare un secondo sguardo, o uno sguardo più ravvicinato. A prima vista queste sono delle Windsor. Si confondono con le immagini degli spazi domestici viste in qualche posto che tutti abbiamo in mente.
TK: Lo sguardo ravvicinato, o la seconda occhiata, richiede più tempo. Formalmente ci basiamo su illusioni come l’anamorfosi e le alterazioni prospettiche per giocare con l’attenzione dello spettatore. Anche se può apparire denso di significati, in realtà è un gioco. La vista è il senso più facile da ingannare, e partire da una forma simbolica permette di stringere un patto, cioè un susseguirsi di scambi visivi tra opera e osservatore.
Domus: Spiegaci l’evoluzione di Wrong Chairs. C’è una sistematicità a guidare il progetto?
TK: Come per la maggior parte di ciò che facciamo, è più un processo di prova ed errore che un sistema. Per un po’ siamo andati a scovare nuovi modi di ‘guardare’ la forma, che richiedevano tutti un punto di partenza consueto. Così quando Carrie è arrivata con la vecchia foto di una sedia Windsor con una traversa spezzata abbiamo pensato che l’immagine potesse agire da perfetto fattore di controllo: una tipologia semplice con un difetto specifico.
CN: Dopo di che Thom ha trovato un’incredibile serie di disegni d’epoca della Windsor. Li abbiamo usati per comporre ipotetiche alterazioni. Questi disegni rivelavano una tensione che oscillava tra il mimetismo e il fuori tema. La contraddizione ci ha affascinato. Il mantenimento di questo equilibro ha guidato il processo euristico. Alla fine ogni sedia è davvero un caso di studio a sé, e certi sono più felici di altri.
Domus: Funziona come una battuta di spirito? C’è qualcos’altro dietro?
CN: Come è ovvio dal titolo Wrong Chairs, “sedie sbagliate”, c’è poco spazio per gli equivoci. Analogamente le battute sono provocanti per la loro immediata leggibilità: si intende che il trucco sarà scoperto. Ma, guardando le sedie e sedendocisi, capire dove sono sbagliate può non essere automatico come indica il titolo.
TK: Una buona battuta può essere replicata all’infinito. Quindi dopo la presa di coscienza ci dovrebbe essere spazio per ulteriori analisi.
Domus: Pensate che la storia sia qualcosa in cui scavare per trovare dei riferimenti? Ritenete che il vostro progetto sia rispettoso della storia, della tradizione e delle ‘regole’ o che invece le neghi?
TK: Sì, c’è un sacco di lavoro da fare. Anche se tutte le buone idee sono già state formulate noi ampliamo la vita del repertorio dei vecchi arnesi riciclandone il senso simbolico. Ma rispettandoli comunque. Strizziamo l’occhio, sorridiamo, continuiamo a sperare che qualcuno apprezzi il riferimento non come una parodia, ma come una sfumatura. E se non succede, be’, sarà per un’altra volta.
CN: E ricollocare la scatola degli arnesi storici in contesti nuovi e diversi – speriamo – evita che facciano la muffa. Condividiamo un amore per la storia, per la tradizione e per le ‘regole’ che si esprime meglio con una strizzata d’occhio e con un sorriso che non – diciamo – togliendosi il cappello.
Domus: A scuola eravate dei discoli? È il vostro modo di prendervi la rivincita?
TK: Siamo venuti su con tante di quelle lezioni e di quelle regole che le abbiamo introiettate: “Non correre”, “Non guardare”, “Non masticare con la bocca aperta”. Così si fa tutto il possibile per evitare la derisione evitando di sbagliare, finché non ci si rende conto che la sovversione è più divertente e potenzialmente più fruttuosa. Se non si guarda, ci si perde qualcosa. Quanto al prendersi la rivincita non credo che il punto sia questo. È meglio quando si vince tutti insieme.
CN: Io, per la cronaca, non ci ho mai badato.