Stefano Boeri: Vico, tu hai più volte sostenuto che a Milano negli anni Sessanta il design aveva delle caratteristiche molto particolari, che lo distinguevano da altre tradizioni progettuali. La prima era la capacità di durare nel tempo: di restare utile, interessante e intrigante a lungo. Un’altra delle sue caratteristiche era secondo te la sua semplicità. Infine, hai spesso sottolineato la capacità dei designer italiani di collaborare con i tecnici di produzione e di sviluppare una specie di processo progettuale collettivo. Sono caratteristiche esclusive? E non più ripetibili?
Vico Magistretti: Io sono architetto, progetto case fin dagli anni Sessanta, fino dalla fine della XII Triennale, che segnò l’inizio del design italiano. C’è una gran differenza, dal mio punto di vista, tra architettura e design: in architettura si lavora completamente soli, nel senso che si dice al proprio committente: “Questa cosa la facciamo così”. Non si danno al proprietario tre o quattro possibilità di scelta. Non si discute; devi decidere tutto da solo, fino ai gabinetti, che invece sono già fatti. Nel design, invece, è il produttore (da Cesare Cassina a Maddalena De Padova) che chiede al designer di adattarsi alle proprie capacità produttive. Il rapporto non consiste nel dire: “Qui ci sono i miei disegni, torno tra venti giorni a vedere che cosa hai fatto”. Questo è il modo peggiore di fare design. Invece si deve dire semplicemente: “Incontriamoci e parliamo di come si può fare”. Ci consultiamo con la gente che fabbricherà materialmente il progetto e conosce benissimo il materiale da usare, sia esso legno oppure alluminio. E questo genere di incontri non richiede disegni esecutivi con tutti i particolari a grande scala. Sono del tutto inutili. Uno stretto rapporto con il produttore richiede semmai al designer un’idea chiara, non una forma o uno stile. Bastano degli schizzi. Poi c’è la discussione con chi materialmente costruisce il prodotto, la discussione su come mettere insieme i vari componenti del progetto. Il che dimostra che sei tu che hai bisogno di loro, e che loro non hanno bisogno di te come progettista. Devi dare loro un sacco di informazioni utili a capire se la tua idea è giusta o sbagliata. Quando nacque il disegno industriale, c’era un rapporto forte con il produttore. Il risultato di questo ‘incontro’, secondo me, dovrebbe essere la semplicità, soprattutto dovrebbe essere un’idea chiara e semplice.
Stefano Boeri: Cosa intendi esattamente per ‘semplicità’?
Vico Magistretti: La sedia Thonet, uno dei migliori esempi di successo del rapporto designer-produttore, è durata più di centocinquant’anni. Oggi c’è la tecnologia. Il significato del design sta nel numero, il design viene oggi riprodotto in grandissimi numeri. In passato realizzare 2.000 o anche 10.000 oggetti era un grande affare. Oggi invece la tiratura annua (per esempio di una sedia in plastica) deve essere di 100.000 o 200.000 pezzi. E i produttori dovrebbero capire che anche se realizzano oggetti in legno, possono essere aiutati dalle macchine. Nell’hinterland di Milano lavoravano degli stupendi artigiani che realizzavano prodotti di qualità altissima. Il merito di un buon prodotto non andava ai designer ma all’artigianato di qualità, che era già presente sul territorio. Ovviamente facevano cose che avevano un certo costo: ci mettevano quattro o cinque giorni per fare a mano una sedia! Per contro, ricordo che una delle sedie di plastica che avevo disegnato poteva essere prodotta al ritmo di una al minuto. Ma quando si lavora insieme agli altri, automaticamente il rapporto si fa umano, non dipende da una macchina. Gli dici che hai bisogno di loro - il che è vero - e cominci a suggerire una certa idea. Loro ti aiutano a renderla reale, fino a quando pensi: “Sì, l’abbiamo fatto nel modo giusto”. Un designer deve essere sempre pronto a fare un altro tentativo, a sperimentare. Non ci si deve mettere nella posizione di un re e dire: “Sono certo che la lampada di straordinaria bellezza che ho progettato è perfetta per le vostre macchine!”. Non funziona così. Non ne avrete mai la certezza. Io non ho mai imparato tanto quanto da coloro con cui ho lavorato.
Joris Laarman: Ma questo ti è successo anche nel tuo mestiere di architetto?
Vico Magistretti: No, come ti dicevo in architettura è l’opposto: quando faccio architettura sono solo, mentre quando faccio design sto insieme con gli altri. E questa dimensione collettiva è tipica del design italiano. Al Royal College of Arts di Londra, gli studenti se ne vanno con il loro portfolio a proporre i propri lavori alle aziende. Il produttore dice: “Va bene, lo faccio, grazie”. E loro se ne vanno . Ma questo è il modo peggiore di fare design. Naturalmente il designer deve fare una proposta, ma studio e realizzazione devono essere portati avanti insieme, con un lavoro collettivo.
Joris Laarman: Ieri una persona mi ha detto che io sembro un designer italiano e Vico sembra un designer olandese. Ho pensato che fosse un’osservazione interessante. Naturalmente quella persona stava parlando del risultato visivo dei nostri progetti: l’esplicita semplicità di Vico accanto agli esuberanti oggetti decorativi che progetto io. Ma sotto la superficie delle differenze visive e culturali tra olandesi e italiani, sospetto che abbiamo lo stesso amore per le idee, solo che si vuol sempre colpire l’attenzione di chi ci sta intorno. Forse questa è la spiegazione delle differenze visive.
Vico Magistretti: E allora parlami delle cose che hai disegnato.
Joris Laarman: Ho disegnato un radiatore per riscaldamento che è una provocazione nei confronti dello stile minimalista, funzionalista, in cui la decorazione è un tabù. Volevo mostrare che le forme industriali minimaliste non sempre sono più funzionali della decorazione. Un radiatore richiede una grande superficie per cedere il calore all’aria, e così nel mio progetto lo stile barocco è più funzionale di un puro quadrato. Ogni progetto ha un suo schema particolare. Occorre che nello schema ci siano più stratificazioni e che alla fine si mettano insieme, rendendo evidente perche il progetto è un buon progetto e per quali motivi lo sia. Più decorazioni ha il radiatore, meglio funziona.
Vico Magistretti: Se funziona significa che ha una sua semplicità interna.
Joris Laarman: In generale si può dire che considero gli oggetti come delle entità autonome. Guardo un oggetto e mi chiedo che cosa voglia essere. Perché mettiamo addosso a tutti i radiatori la stessa uniforme e li nascondiamo come se non esistessero? Sono d’accordo con Vico sul fatto che il design in linea di principio debba sempre essere considerato un prodotto, e che il suo studio e la sua realizzazione debbano essere uniti. Ho un debole per quei prodotti di grande serie che sono molto utili ma vengono dimenticati rapidamente. Molte persone possiedono una tendenza naturale a ignorare cose o fatti che preferirebbero non vedere o che cerchiamo di nascondergli. Credo che ogni oggetto abbia il diritto di diventare ciò che vuole e la responsabilità di questo processo tocca al designer. Uno dei migliori esempi che conosca è la protesi di vetro, così sexy, di Matthew Barney. La maggior parte dei nuovi prodotti cui sto lavorando ha a che fare con la ‘rivelazione’ della funzionalità e con la tutela dei prodotti minacciati di estinzione, come per esempio i cavi.
Vico Magistretti: Stiamo facendo due cose completamente diverse. E credo che la nuova Domus sia interessante perché presta la stessa attenzione al mio lavoro e a quello di Joris. Io sono vecchio, come sapete, e ho l’impressione che in questo momento stia succedendo qualcosa nel dibattito sul design. Non dico “un cambiamento”, ma qualcosa che può costituire un’alternativa. Non sono d’accordo con tutto quello che dice Joris, ma capisco il senso di quel che vorrebbe dire. Io sono abituato a esprimere le mie idee di design con un concetto chiaro, non con dei disegni, con lo stile. Sono abituato a spiegarle per telefono. Le spiego attraverso forme semplici (il quadrato, il triangolo) e misure. Per telefono, si può perfino spiegare perché si vuole usare una forma piuttosto che un'altra. Io non penserei mai di fare un radiatore come quello di Joris perché penserei di farlo realizzare con le macchine. Forse è possibile anche fare a macchina un radiatore come questo, ma probabilmente con maggiori complicazioni. L’idea di Joris è di affrontare la complicazione per esprimere se stesso, e va bene, ma è un punto di partenza diverso dal mio.
Joris Laarman: Credo che la differenza generale tra i nostri due modi di lavorare stia proprio qui: nel punto di partenza. Il radiatore è un pezzo modulare prodotto a macchina. Penso che il rapporto tra produttore e progettista sia anch’esso molto importante, ma a volte credo sia meglio lasciar perdere le possibilità che sono note al produttore e iniziare a progettare da ciò che un oggetto vuol essere o dalla storia che vuol raccontare. In certi casi i produttori, quanto a innovazione, possono imparare anche dai designer e ampliare le loro possibilità. E poi penso che un designer possa aggiungere valore culturale o poetico a un prodotto, cui non si arriverebbe se il produttore fosse troppo coinvolto. È uno dei motivi per cui ci sono oggi tanti designer olandesi indipendenti che autoproducono i loro progetti, benché l’industria sia dappertutto sempre più interessata a questo modo di pensare.
Vico Magistretti: Producono i loro oggetti?
Joris Laarman: Faccio l’esempio del lavoro del gruppo De makers van, composto da giovani di recente laureati alla scuola di design di Eindhoven. Loro stanno forzando in modo poetico i limiti dell’industria. Il tavolo progettato da Jeroen Verhoeven è un pezzo di nuovo artigianato digitale. Le forme si rifanno all’artigianato tradizionale, ma sono progettate con tecniche digitali, con una cura e un’intelligenza che riguardano tanto la tradizione quanto l’industria. Il recinto progettato da Joep Verhoeven è un esempio molto convincente di che cosa possa diventare un prodotto industriale di solito sottovalutato come una staccionata quando si guarda alle possibilità implicite in questi prodotti, senza contare che il luogo in cui sono collocati può conferire loro ancor più significato. Ho sessant’anni meno di Vico. Alla mia età si vuol sempre sfidare l’establishment, anche se l’establishment in realtà è già molto buono. Quindi non importa se il design del passato è eccellente: a me piace pensare in modo differente, osservando e interpretando il mondo che mi sta intorno alla mia maniera. I tempi cambiano e cambia ciò che ci sta intorno, i bisogni e i desideri. Credo che il design italiano di cui parla Vico duri perché è fatto con molto amore e tanta intelligenza. È questo che lo rende senza tempo, per quanto cambino i temi e cambi il modo di progettare.
Vico Magistretti: E questa cosa è?
Joris Laarman: Una parete inclinata fatta di appigli decorativi su cui ci si può arrampicare. L’idea è questa: se la tua casa è troppo disegnata, hai bisogno di una via di fuga, perché vai in cerca di indeterminatezza e di luoghi non progettati; altrimenti non puoi creare qualcosa di nuovo. In questo caso puoi vedere da un’altra prospettiva il tuo interno troppo disegnato. È liberatorio. Gli appigli sono fatti di cemento poliestere, e si possono collegare sulla parete come un puzzle, girando intorno agli angoli e intorno al soffitto. Quest’altro progetto è costituito da una serie di vasi fatti con un unico stampo. Di solito la porcellana viene colata in uno stampo di gesso: ogni volta che lo si fa, il gesso si erode un poco. I produttori di ceramica italiani, dopo un po’, realizzano un nuovo stampo esattamente uguale. Qui ho cercato di cogliere l’invecchiamento dello stampo: a ogni fase il vaso invecchia. Ma si tratta ancora di produzione in serie. Alla fine, nel vaso ci sono dei buchi, per cui non è più funzionale e muore. Appassisce come i fiori che contiene. Io colgo un valore nel limite. È un esperimento: non dico che il vaso sia bello ma, considerandolo nella sua serialità, è interessante sperimentare in che cosa consista il limite. Io credo che una vita immortale valga meno di una mortale.
Stefano Boeri: Questa dimensione concettuale non sembra poi così lontana da quello che tu, Vico, raccontavi a proposito della semplicità. Anche Joris parte da un’idea forte e semplice. Lo stile e il linguaggio vengono dopo.
Vico Magistretti: mah… È difficile per me definire concettualmente una cosa che non mi piace. Quello che mi piace nel design è automaticamente connesso a quello che conosco riguardo al processo industriale, in base alla mia esperienza. Per esempio ho visitato recentemente una mostra al Victoria and Albert Museum su Christopher Dresser, che alla fine dell’Ottocento faceva teiere che da un lato erano completamente legate alla decorazione, ma dall’altro erano sostanzialmente legate a un’idea di semplicità. Sono davvero straordinarie e belle. Ho capito immediatamente come sono fatte e perché: sono semplici ed economiche. Anche Andy Warhol sosteneva che la ripetizione fosse qualità. Di recente ho progettato un oggetto (ancora in fase di prototipo) con l’idea di utilizzare un solo stampo, ma con una doppia funzione. Il costo ragionevole che ne risulta trasforma cento oggetti in una produzione di mille pezzi. Un po’ come avevo fatto per la lampada Mania, nata con l’idea di riutilizzare dei pezzi di vetro preesistenti già prodotti dalla Fidenza Vetraria: l’assemblaggio di tre pezzi identici ma di dimensioni diverse ha consentito di creare due lampade, Mania e Grande Mania, prodotte da Artemide nel 1963.
Stefano Boeri: Un fattore del buon design è la sua chiarezza concettuale, che può anche trasformare la semplicità in qualcosa di complesso, come abbiamo visto nel lavoro di Laarman. Un altro elemento è l’ironia. Hai detto, Vico, che tu e Castiglioni ridevate tutto il tempo. I designer della mia generazione (oggi quarantenni o cinquantenni) sono spesso molto seri e a volte arroccati su posizioni moralistiche. Un elemento comune tra te e Joris è che entrambi fate cose lievi, intelligenti e acutamente ironiche.
Joris Laarman: L’ironia è il lato umano del progetto, qualcosa che fa la differenza tra un oggetto di pura ingegneria e un oggetto di design. Forse è l’aspetto di cui è più difficile parlare e forse non c’è una spiegazione soddisfacente. Ma ironia e poesia sono le cose che mi piacciono di più. Liberano la mente. Per esempio mi piace molto una vasca da bagno di porcellana progettata da Wieki Somers. La banalità del gommone realizzato in porcellana diventa un prezioso ricordo d’infanzia per andare alla deriva. Non sarà la vasca da bagno più semplice da produrre, ma credo che sia comunque molto interessante per la produzione industriale per via della bellezza dell’idea. Un altro oggetto per me interessante è la radio progettata da Judith de Graauw e Jeroen Verhoeven. Il volume si regola collocando un altoparlante sopra l’altro; il progetto è costituito solo da componenti funzionali: questa è una batteria di porcellana bianca mentre questo componente è di bachelite. Questa è un’antenna di alluminio. È un progetto pieno di ironia nella sua semplicità e nella sua assenza di componenti stilistiche e di rumore. La stessa cosa vale per questo progetto: è di un designer o di un ingegnere? È buon design, senza tempo, ma manca lo stile.
Vico Magistretti: La semplicità è una delle cose più complicate della vita, perché bisogna togliere e poi togliere ancora. È il punto di partenza del razionalismo. Il lavoro di Mies consisteva nel togliere. È la ragione per cui il lavoro di Christopher Dresser è interessante. Certe sue cose sono orribili, perché formaliste. Ha iniziato a fare cose belle dopo essere stato in Giappone. La semplicità è intellettualmente più elegante. È una ricerca difficile, perché devi immaginare qualcosa di più semplice di prima, ma che abbia un uso migliore.
* La registrazione del dialogo è avvenuta a Londra in occasione di un evento organizzato da Domus per la fiera internazionale 100% Design.