Cosa diceva Domus della Trump Tower nel 1983, quando era in costruzione

Nei primi anni ’80 Domus esplorava New York mentre nella città tornavano finanza, potere, e grattacieli. In quello voluto da Donald Trump si leggeva l’origine di una storia arrivata fino ad oggi.

È il 1983 quando Domus si immerge in una New York in piena trasformazione: alle spalle gli anni ’70 della crisi economica e sociale, la città degli anni ’80 sarà quella della finanza, degli affari, dello yuppismo rampante in fin dei conti, e dei suoi simboli. È all’inizio di quella decade che prendono forma luoghi iconici come la Times Square che conosciamo oggi, e che il Chrysler Building ottiene il décor luminoso pensato per gli anni ’20 e mai realizzato. È all’inizio di quella decade che il postmoderno entra nella sua fase più teatrale, che a Manhattan ritornano i grattacieli e la città diventerà come loro – almeno nelle parole di César Pelli – fatta di ottimismo, celebrazione, gioia. E ricchezza, e potere. “Tower of power” è come viene chiamato l’AT&T di Philip Johnson, allora in completamento. E di fianco a lui stanno arrivando i vetri specchiati e dorati della Trump Tower, simbolo urbano del tycoon che sarebbe poi diventato presidente degli Stati Uniti. Il prologo di una fase storica che spingerà in avanti i suoi modi e i suoi simboli attraverso i decenni, fino alle conseguenze oggi note a tutto il pianeta. Il ritratto della città degli affari e dei nuovi grattacieli usciva su Domus nel febbraio 1983, sul numero 636.

Domus 636, febbraio 1983

Certo, a considerarla oggi dal felice osservatorio degli anni ’80 — ha scritto recentemente (“The New York Times”, 31 ottobre 82) Martin Mayer in un trionfalistico inserto pubblicitario dedicato al sorprendente boom edilizio di Manhattan — la condizione di New York a metà degli anni ’70 appariva drammatica e senza alternative. Come un malato giunto ad un irreversibile stato di crisi, il collassato centro dell’impero minacciava di scomparire inghiottito dai suoi numerosi problemi: disoccupazione (15.000 posti di lavoro in meno ogni anno), decremento demografico (1,5% in meno l’anno), industrie in rotta e grandi corporations in migrazione verso i paradisi fiscali del sud, una municipalità sull’orlo della bancarotta...

Oggi, mentre l’anno di grazia 1982 si chiude sulle seducenti sagome dei nuovi grattacieli che, dal Plaza District a Downtown, stanno sorgendo un po’ dovunque in vecchi e nuovi blocchi urbani, il 1983 già si apre sulla incoraggiante prospettiva di grandiosi programmi di investimento. Lasciatesi alle spalle inflazione e recessione, enti statali, authorities municipali e private corporations appaiono impegnati ad investire con la forza d’impatto di enormi capitali finanziari e il potere di richiamo dei migliori studi professionali aree tradizionalmente marginali o addirittura di recente creazione. Nel Lower Manhattan West, 92 acri di nuovo suolo, strappato all’Hudson con i terreni di riporto del World Trade Center, stanno per essere investiti dal piano del Battery Park City, un programma misto di spazi per uffici, residenze e attrezzature ricreative.

Domus 636, febbraio 1983

Nel West Midtown un ambizioso progetto di sviluppo sta per cambiare radicalmente la fisionomia del Times Square District: un miliardo di dollari per un periodo di dieci anni è il supporto finanziario del 42nd Street Redevelopment Project, un insieme combinato di distretti commerciali (master-plan Johnson-Burgee), spazi per l’intrattenimento (restauro di tutti i vecchi edifici teatrali della zona), attrezzature alberghiere, un mercato all’ingrosso all’incrocio con la 8 a avenue. Nella stessa area, tra la 34 a e la 39 a strada, il New York Exposition and Convention Centre (in costruzione tra la 9 a avenue e l’Hudson) doterà la città della più grossa concentrazione nazionale di spazi espositivi ad uso pubblico: un’area mista (progettata dallo studio I. M. Pei) a carattere commerciale e ricreativo, iniziata nell’aprile ’80 e destinata ad entrare in funzione nel 1984.

Se nel 1977 i proprietari del Chrysler Building avevano chiesto alla City Planning Commission la licenza di demolizione del mitico grattacielo, oggi l’installazione dell’originario piano di illuminazione, previsto da Van Alen ma mai eseguito, ha guadagnato allo skyline notturno la favolosa cifra di una nuova cuspide. Una vigorosa impennata d’interesse per le radici storiche di una cultura autoctona si traduce nella duplice azione di un articolato piano di restauro di tante pregevoli costruzioni del passato e nelle paludate vesti di molta della nuova edilizia newyorkese: quella nuova generazione di brillanti e clamorosi grattacieli dovuti alle penne del più prestigioso professionismo americano, in cui pure si è voluto leggere una volontà di ritorno alla splendida epopea dei ruggenti anni ’20.

Domus 636, febbraio 1983

Considerata, ancora agli inizi degli anni 70, un patetico relitto del naufragio dell’international style, la tipologia del grattacielo come schema costruttivo e presenza visuale sta conoscendo una sua nuova incandescente stagione. Tra la Quinta e Madison avenue, un grappolo di tre torri in via di ultimazione rappresenta l’emblema tangibile di quella che Paul Goldberger ha definito “il cambio d’attitudine degli Americani verso gli affari..., verso l’ambiente fisico, verso la loro storia”.

Oggi, mentre l’anno di grazia 1982 si chiude sulle seducenti sagome dei nuovi grattacieli che, dal Plaza District a Downtown, stanno sorgendo un po’ dovunque in vecchi e nuovi blocchi urbani, il 1983 già si apre sulla incoraggiante prospettiva di grandiosi programmi di investimento.

 L’effetto di solida permanenza della nuova sede IBM (Edward Larrabee Barnes), la ricerca di una polivalente sfaccettatura “ad effetto” nella vitrea Trump Tower (Der Scutt), il beffardo e disinibito storicismo della AT&T di Johnson e Burgee sono solo i sintomi più evidenti di una new wave che sospinta (da New York a Chicago a Houston) dall’Indian summer postmodernista prova ad assestarsi attorno ai valori guida di un aggiornato (scaltro) “neoromanticismo” : “piacevolezza” e “flamboyance”! “C’è oggi — ha osservato Goldberger — un grado emozionale, persino di passione creativa, nel progetto dei nuovi grattacieli che sembrava scomparso dagli anni ’20 in poi”.

Domus 636, febbraio 1983

E alla familiarità di quelle eleganti inflessioni déco sembrano puntualmente ispirarsi le sinuose cadenze del Chicago’s North Western Terminal di Helmut Jahn, così come le specchianti quadrettature di Cesar Pelli per le torri commerciali del Battery Park City o le sapienti sagomature ascensionali della Transco Tower di Johnson-Burgee a Houston.

“Oggi — ha recentemente dichiarato Pelli, autore della quasi ultimata torre d’ampliamento del Moma di New York — siamo liberi di creare una nuova generazione di grattacieli: ottimistici, celebrativi, gioiosi, pubblici, desiderosi di accettare il loro ruolo di icone..., di proporzionarsi a scala umana nella strada e in maniera epica contro il cielo”. Il disincantato e disponibile eclettismo dei nuovi idiomi architettonici sembra in realtà aver perfettamente incarnato quella richiesta di unicità e rappresentatività suggerita dalla politica d’immagine delle grandi corporations e incoraggiata dall’avvenuta trasformazione della città da sede di produzione industriale a capitale della nuova società delle comunicazioni. L’incremento del management e delle tecnologie soft, i valori della concentrazione nel mercato internazionale dei servizi, la ramificazione dell’economia sommersa, che sono all’origine della rinascita commerciale della città, sono alla base anche della sua rivalutazione architettonica.

Domus 636, febbraio 1983

Le affermazioni di Pelli (“i grattacieli sono parte della rivoluzione postindustriale. Sono le nuove fabbriche — fabbriche di carta, di telefoto, videoterminal e computer”) sposano il convinto motto dei nuovi imprenditori edili: “una buona architettura è un solido investimento”. Se l’impennata del valore dei suoli e l’incidenza dei costi di costruzione rendono di nuovo competitiva la ricerca di un elevato standard architettonico, fiducia tecnologica e teatralità spettacolare sono gli ingredienti indispensabili della nuova formula di successo. 

Sulla scena americana, Philip Johnson — eminenza grigia e enfant terrible dell’élite professionale newyorkese — ha ancora una volta precorso i tempi, cavalcando con sicurezza la tigre del cambiamento. “The tower of power” — così il “New York” (15 novembre ’82) ha infatti ribattezzato la discussa colonna tripartita dell’AT&T — è una vicenda esemplare del nuovo trend: dignità e solidità per esprimere la consapevolezza d’essere la più potente compagnia del mondo; soluzioni classiche e materiali duraturi per permettere all’architetto di confrontarsi con le eterne domande del costruire. “Così come il Seagram Building ha espresso il meglio del suo tempo — ama raccontare Johnson — l’AT&T doveva essere il massimo del prossimo futuro”!