Nel 1969 è ormai qualche anno che Ettore Sottsass condivide con Domus le sue Memorie di panna montata, diventate poi Memoires, enfatizzando il loro carattere di saggi tra il critico e l’onirico, tra l’evocazione rétro e la provocazione radicale. Ha raccontato la Swinging London fotografandone le boutique e la vita trasformata nei suoi ritmi, ha raccontato il Giappone e adesso tocca a New York. È uno dei suoi diversi viaggi – poco tempo dopo arriverà quello per la mostra del MoMA Italy: the new domestic landscape, evocato per Domus da Andrea Branzi in un piccolo fuoco d’artificio narrativo pop tutto da leggere – e basta un televisore dal funzionamento anarchico per trasformarlo in una epifania psichedelica, in cui al futuro fondatore di Memphis si rivelano nuove chiavi di lettura del panorama visuale e culturale dell’Italia e dell’Occidente. Potete condividere qui il primo passaggio di questo viaggio, uscito nel marzo 1969 sul numero 472, che trovate integralmente esplorando l’Archivio Digitale di Domus.
La New York psichedelica (e televisiva) di Ettore Sottsass
Nel 1969 le Memoires di panna montata che il designer scriveva per Domus sbarcavano negli Stati Uniti, e bastava una tv dal funzionamento anarchico per aprire nuovi sguardi sulla nostra cultura visiva.
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- Ettore Sottsass
- 17 settembre 2024
La t.v. con i bottoni sbagliati
Il vero “viaggio” cominciò alle sei di sera quando finì quello sospettoso del quadrijet Douglas 403 motori Rolls Royce per caso sulla pista del Kennedy dopo 9 ore di volo (data la partenza domenicale dalla cittadina di Milano) e le ultime quattro ore si dondolò nella nebbia, le cinture allacciate e il sipregadinonfumaregrazie; anzi il “viaggio” cominciò dopo che finì quello di avvicinamento a Manhattan, la città di New York, con l’opulento taxi giallo ronzante attraverso Queens, incanalato in una folla strisciante di macchine opulente, spettrali, lungo la pista che si chiama Van Wyck Expressway e poi per la Grand Central Parkway attraverso il ponte sospeso di Triborough, lasciandosi a sinistra, a sudovest, le colline pelose di croci, la costellazione dei cimiteri che si chiamano Calvary e New Calvary, Monte Sion e Monte Oliveto, Monte Carmelo e Monte di Giuda, Collina dei Cipressi e Cimitero Luretano e di San Giovanni, lo Union Field Cemetery e il Cimitero della Trinità che poi finisce nell’isola immensa del Cimitero dei Sempreverdi - il Cemetery of the Evergreen - in mezzo a lande nebbiose di officine carbonizzate viste dall’alto e tundre di baracche di assi marcite, ferro arrugginito e vetri rotti dalle fionde di ragazzi fuggiti come ombre; in mezzo a parchi bagnati di nebbia paludosa; in mezzo alle automobili schiacciate, fuori strada e rovesciate, abbandonate con i cuscini per terra come scatolami di ananas sciroppati; il “viaggio” cominciò quando arrivammo nella camera surriscaldata dell’Hotel Stanhope, lussuoso albergo di antichi padroni francesi ex feudatari di Guglielmo il bastardo (forse), data la presenza dell’albero genealogico appeso all’ingresso vicino al monitor (per vedere chi entra e chi esce quando il portiere con il fischietto va “a lavarsi le mani”); il vero “viaggio” cominciò subito, quando ho acceso la Tv a colori con i bottoni sbagliati dato che non so come farla funzionare e la Sofia Loren apparve corrucciata, vestita da principessa, credo, pareva una specie di monaca, ma con la faccia tutta bella a righe viola color ciclamino di quelli selvatici che si trovavano all’ombra dei boschi e adesso non esistono più e dietro la Sofia il cielo era un po’ verde come una giada buona, colore delle mele dicono, e un po’ rosa, colore dei garofani di montagna, quelli profumati che crescono soltanto al sole sulle terre secche dove corrono (come ectoplasmi) coleotteri iridescenti, e i campi erano di un arancione come le calze che la Nanda mi comperò a Firenze il giorno dei miei 50 anni.
C’erano anche i tornei dei guerrieri del medioevo, tutto sbagliato, con guerrieri prepotenti armati di lance ma verdi come ramarri e la barba del vecchio Re gialla come Oransoda e le pulzelle spagnole erano schierate tutte in fila con cappelli a cono e veli come fate dei carri di Viareggio, tutte bluastre con sfumature di verde, parevano tubi per bagnare giardini delle suburbia americane; e il Cid eroe senza macchia, figlio di mamma, mercenario venduto a chi pagava di più, entrava tutto rosso paonazzo e così restava, in attesa che la Sofia sempre corrucciata andasse a letto la prima notte di nozze, eccetera e tutta la retorica dei cavalieri eccetera; queste balle che ci hanno raccontato per secoli prima che si girasse intorno alla Luna, si coloravano finalmente dei loro giusti colori, colori come quelli di Topolino e Biancaneve ma drogati di L.S.D. Fu finalmente un viaggio felice.