La prima casa di Frank Gehry a Los Angeles

Nel 2018 lo storico Jean-Louis Cohen ripercorreva per Domus la storia di un edificio capace di illuminare l’origine del mito del suo progettista, e del contesto da cui era nato.

“Suppongo che nella vita si abbia un’unica idea”: sono le parole con cui Frank Gehry commentava nel 1984 il suo progetto di vent’anni precedente, la sua prima casa(-studio) a Los Angeles, realizzata per il grafico Lou Danziger. Si riferiva alla pratica ricorrente di collegare, unire tra loro pezzi diversi, che in effetti troviamo anche sotto gli involucri tormentati di molti dei suoi progetti leggendari, come la Walt Disney Concert Hall, il Guggenheim di Bilbao, o la più recente Fondation Louis Vuitton di Parigi. Per comprendere il processo di iconizzazione della figura stessa di Gehry come pilastro del decostruttivismo, però, si deve ripercorrere la sua origine, radicata in un contesto culturale fatto di riferimenti, ispirazioni ma soprattutto di intersezioni tra diverse traiettorie storiche e personali.

Jean-Louis Cohen, storico dell’architettura che di queste intersezioni ha fatto il cuore della sua ricerca, compiva esattamente quest’operazione indagando la storia della prima casa losangelina di Gehry: un affioramento del più ampio progetto a cui stava lavorando in questi anni, sui materiali d’archivio dell’architetto canadese, in corso di pubblicazione in un Catalogue raisonné di otto volumi. La casa Danziger usciva quindi, assieme ad un approfondimento su domusweb dedicato ai suoi disegni, sul numero 1020 di Domus, nel gennaio 2018.

Domus 1020, gennaio 2018

Frank Gehry, Studio e Residenza Danziger, Los Angeles, 1964-1965

Nel suo libro Los Angeles. The Architecture of Four Ecologies, Reyner Banham esprimeva nel 1971 il suo punto di vista a proposito dello studio di Gehry, considerando “importante ed evidente il modo in cui questo involucro edilizio semplice ed elegante non solo conferma la vitalità e la validità della scatola intonacata come tipica architettura angelena, ma utilizza anche questo stile a un livello così alto da diventare immediatamente un esempio di architettura di livello internazionale. E con questo, il ciclo avviato da Schindler riprende il cammino, con rinnovata autorità”1. Banham aveva forse in mente il Pueblo Ribera, costruito dal rifugiato viennese nel 1924 a La Jolla, oppure la sua Bethlehem Baptist Church del 1944 per il quartiere di Central-Alameda a Los Angeles.

L’edificio che ha determinato questo primo riconoscimento di Gehry a livello internazionale ha avuto anche un ruolo decisivo nel consolidare la presenza dell’architetto sulla scena di Los Angeles. Lou Danziger, un grafico di successo i cui progetti innovativi erano apprezzati tanto nell’ambiente museale quanto in quello pubblicitario, era al corrente del lavoro di Gehry in quanto faceva parte del consiglio di amministrazione della Faith Plating Company, per la quale Gehry aveva disegnato una nuova sede nel 1963-1964. Assieme alla moglie Dorothy, per il progetto di uno studio con residenza aveva inizialmente affidato la commissione al suo amico e collega Frederick A. Usher – un “tipo molto carismatico” – col quale Gehry aveva lavorato nello studio di Victor Gruen, secondo Greg Walsh, socio di Gehry per molti anni2. Fu Usher a chiedergli di rilevare il progetto.

Domus 1020, gennaio 2018

Più tardi, Lou Danziger ha avanzato la richiesta che il concetto iniziale gli fosse accreditato. “Ho sviluppato una pianta e costruito un modello in legno del progetto, essenzialmente il concetto base con due cubi disassati. Ho portato il plastico a Frank e gli ho detto ‘Frank, siamo capaci di costruirlo in tre mesi per 30.000 dollari?’ Frank gli ha dato un’occhiata e ha detto che ce l’avremmo fatta. In quei giorni le cose andavano così! Gli avevo dato lo schema di base, col quale poi lui ha fatto meraviglie”3. Ma Gehry ricorda: “Ho incontrato Louis ed ero assieme a Greg Walsh e abbiamo lavorato [all’idea di] uno studio. [Lou] voleva uno spazio in cui abitare ma anche lavorare. Stava per assumere un assistente, perché l’attività si stava ampliando. Voleva [anche] una biblioteca”4.

L’idea che non ci sarebbe mai stato bisogno di ridipingere l’edificio era per noi importante.

Frank O. Gehry

Su un angolo trafficato di Melrose Avenue, in un quartiere in cui abbondavano le stamperie e altre attività legate al mondo della grafica, l’idea di Danziger era costruire uno studio di circa 90 m2 e un’abitazione di 150 in un unico edificio. I primi bozzetti riflettono questo principio unitario. Walsh ricorda che “la grande epifania è avvenuta per me quando abbiamo staccato i due elementi. Per la prima volta avevamo due pezzi su un unico sito”5. La pressione del traffico in questa zona di Hollywood portò dapprima alla realizzazione di volumi chiusi, con un numero minimo di aperture verso la strada. La descrizione redatta dallo studio per una candidatura al premio della AIA nel 1970 è esplicita: “La natura dell’ambiente circostante – inquinato, rumoroso e totalmente aperto al pubblico – rendeva necessaria una completa introversione e una schermatura dell’edificio rispetto alla strada. La soluzione è stata una struttura simile a una fortezza, rientrata rispetto alla strada, con la porzione residenziale confinata alle spalle di un alto muro”6.

Domus 1020, gennaio 2018

Le prime versioni presentano tetti a spioventi con abbaini, tali da generare un contrasto linguistico con i volumi principali paragonabile a quel-lo dell’Hillcrest apartment building del 1962. Poi, passo dopo passo, interviene un processo cubista con l’esplorazione di molte articolazioni del programma, che alla fine conduce alla creazione di due entità separate ma adiacenti, collegate solo al piano terra. A un certo punto fanno la loro comparsa le torrette, nelle quali sono ospitate le condutture dell’aria condizionata e gli impianti idraulici. Gli assemblaggi volumetrici richiama-no in certi casi la Horatio Court West di Irving Gill a Santa Monica (1915), pubblicata da Esther McCoy nel suo Five Californian Architects del 19607. La ricerca pressoché ininterrotta di convincenti raggruppamenti di volumi rivelano l’interesse che Gehry già mostrava per “l’idea del collegamento, dell’unire i pezzi”. Un’attitudine che nel 1984 egli considerava “molto simile a quello che sto ancora facendo vent’anni dopo. Suppongo che nella vita si abbia un’unica idea”8. Su carta finì un gran numero di versioni, mentre ulteriori viste prospettiche venivano disegnate dal talentuoso Carlos Diniz, a sua volta amico di Danziger. Così come appare costruito, il doppio schema presenta un soggiorno all’angolo tra Melrose e Sycamore Avenue, e uno studio sul lato ovest con un garage che occupa il piano terra sul lato est, sotto la camera padronale.

L’introversione è stata ottenuta non solo racchiudendo l’intero complesso tra mura, ma anche evitando radicalmente aperture convenzionali verso l’esterno, eccetto che in cucina, come viene spiegato nel testo redatto dallo studio nel 1970: “Se si fa eccezione per un profondo intaglio nella [parete della] cucina, non ci sono finestre rivolte verso la strada ad altezza d’uomo. Un lucernario lascia penetrare nello studio la luce da nord, preferibile quando si disegna, mentre un’apertura analoga in camera da letto è rivolta a est. Tutte le altre finestre si aprono su aree protette oppure sono situate in alto sulle pareti. Il rumore proveniente dalla strada è eliminato grazie all’utilizzo di porte insonorizzate e muri a doppio spessore con intercapedine”9.

Domus 1020, gennaio 2018

Come Gehry avrebbe in seguito ammesso, il deliberato impiego di volumi solidi ortogonali tradisce un cambio di orientamento nel suo lavoro: “Abbiamo realizzato diversi studi e credo che, personalmente, all’epoca fossi particolarmente affascinato da[l lavoro di] Lou[is] Kahn. Immagino abbia avuto una forte influenza su di me, perché fino a quel momento, appena uscito da scuola, qualsiasi cosa facessi era in stile giapponese”10.

Mentre l’edificio era in costruzione, un giorno vedo questo pazzoide in mezzo al cantiere. Era [Ed] Moses. Poi, ogni volta che andavo a seguire i lavori, trovavo qualcun altro venuto a dare un’occhiata.

Frank O. Gehry

Dal canto suo, Walsh sostiene che tanto Danziger quanto Gehry erano innamorati del cemento, mentre Gehry ricorda: “Guardavo molto a Kahn, ma anche a Corb”11. In una vena più vernacolare, echi delle onnipresenti dumb boxes di Los Angeles sono facili di rintracciare. L’idea iniziale era usare cemento per la struttura, in modo da ottenere una texture e un colore che non richiedessero pitturazione e resistessero all’usura [del tempo]. Gehry e Walsh erano interessati all’aspetto del lato inferiore delle strade sopraelevate, altro elemento tipicamente losangeleno12. Ma nessuna impresa di costruzioni accettava un lavoro di proporzioni così ridotte e, stando a Walsh, “alla fine, abbiamo costruito l’edificio in legno e stucco, con un aspetto e una massa simili a quelli che si ottengono usando il calcestruzzo, al modo di Le Corbusier”13

Domus 1020, gennaio 2018

Anche Gehry ha raccontato il processo: “Qualunque cosa pensassi, amavo l’intonacatura a stucco grezzo. E non c’era edificio in cui venisse usata. Lo chiamano ‘tunnel mix’. Lo si vedeva sul lato inferiore delle sopraelevate, dove veniva applicato a spruzzo. Ho chiesto di farlo a un’impresa di costruzioni ma mi hanno risposto che non si poteva: non sapevano come si facesse. Ho spiegato loro ciò che volevo ottenere e l’impresario mi ha risposto che l’idea era buona e che se volevo fare degli esperimenti potevo tranquillamente usare il suo garage. Così ho scoperto che macchine servivano per fare il ‘tunnel mix’, poi sono andato alla U-Haul e le ho prese a noleggio, ho mescolato la malta e l’ho fatto da solo. L’ho spruzzato sul garage ed era uno spettacolo! Poi ho chiamato il tizio dell’impresa, gli ho mostrato le pareti ed ecco come sono nati i muri dell’edificio di Danziger”14.

Due strati di questa miscela costata tanti sforzi furono applicati a una struttura in legno lasciando un’intercapedine che assicurasse una protezione termica e acustica. Secondo Walsh, “la massa della casa era tale che la costruzione è stata realizzata con travi di dimensioni doppie, perché volevamo che le pareti apparissero spesse”15. In alcuni bozzetti appaiono superfici dai colori vivaci, ma alla fine prevalse il colore naturale del cemento quale strategia preventiva contro le aggressioni degli agenti atmosferici. Sottolinea Gehry: “Abbiamo studiato vari tipi di cemento colorato e scoperto che ne esisteva una grande varietà, dal verde oliva al blu-grigio chiaro, tendente al bianco. Abbiamo scelto quest’ultimo. L’idea che non ci sarebbe mai stato bisogno di ridipingere l’edificio era per noi importante”16. Questo aspetto è sottolineato nella già citata presentazione del 1970 per il premio AIA, nella quale si spiega come “la superficie sia ragionevolmente compatibile con la sporcizia che, come avevamo previsto, si è accumulata”17.

Domus 1020, gennaio 2018

L’interno dello studio è racchiuso da pareti intonacate in bianco, con la struttura del tetto e i condotti di ventilazione a vista. L’atmosfera visiva creata dalla varietà di aperture è definita con cura. Ricorda Gehry: “M’interessava anche provare a far filtrare la luce naturale, creando una mescolanza di luce calda e fredda nello studio di un artista. Non ero d’accordo con gli studi che utilizzavano solo luce da nord, così ho combinato la luce proveniente della parte posteriore e dal lucernario, facendo in modo che non fosse troppo invadente, ma che si mescolasse sopra il livello degli occhi”18. Secondo Gehry, Danziger alla fine decise “di non assumere un assistente e comprò un tavolo da biliardo, appassionandosi presto al gioco”19.

Non ero d’accordo con gli studi che utilizzavano solo luce da nord, così ho combinato la luce proveniente della parte posteriore e dal lucernario, facendo in modo che non fosse troppo invadente, ma che si mescolasse sopra il livello degli occhi.

Frank O. Gehry

Riconosciuto a livello locale da Esther McCoy, l’edificio garantì a Gehry i primi articoli sulla stampa nazionale, giocando un ruolo decisivo nel collegarlo agli artisti locali. Lo ha ricordato lui stesso nel 1999: “Mentre l’edificio era in costruzione, un giorno vedo questo pazzoide in mezzo al cantiere. Era [Ed] Moses. Poi, ogni volta che andavo a seguire i lavori, trovavo qualcun altro venuto a dare un’occhiata. Moses aveva sparso la voce circa quest’edificio in via di realizzazione, dicendo che si trattava di una cosa diversa dal solito. È così che ho conosciuto Ken Price, e anche Billy Al Bengston. In quei giorni ho incontrato un sacco di artisti che venivano a vedere l’edificio in costruzione”20. È spingersi troppo in là vedere nella comparsa di un volume grigio in Picture of Melrose Avenue in an Ornate Gold Frame, un quadro di David Hockney che risale allo stesso periodo, un’espressione ironica di questa curiosità, nonostante il segnale che colloca la scena a 12 isolati di distanza?

Più tardi, Gehry avrebbe preso le distanze riguardo a questo “tentativo di creare un mondo marginale e controllato all’interno del disordinato ambiente urbano di Los Angeles”. Come ha affermato nel 2006, “all’epoca tutti erano molto colpiti, poi mi sono reso conto che trascurare una potenziale interfaccia con la città rappresentava un’attitudine molto limitante” 21. Però quest’edificio autonomo ha segnato un punto d’inflessione determinante nella sua traiettoria precoce.

1. Reyner Banham, Los Angeles, The Architecture of the Four Ecologies, Harper and Row, New York 1971, p. 198; ed.it., Los Angeles. L'architettura di quattro ecologie, Costa & Nolan, Genova 1983, p. 179.
2. Gregory Walsh, in Mildred Friedman, Frank Gehry: the Houses, Rizzoli, New York 2009, p. 116. 
3. Lou Danziger, ibid., p. 115.
4. Frank Gehry, intervista con Barbara Isenberg, Tape 14, 27 dicembre 2005, Gehry Partners Archives.
5. Gregory Walsh, in Mildred Friedman, cit., p. 119. 
6. AIA Honor Awards Program. Descriptive Data. 1970, Gehry Partners Archives. 
7. Esther McCoy, Five California Architects, Reinhold Pub. Corp, New York 1960, p. 96. 
8. Frank Gehry, 1984, citato in Francesco Dal Co e Kurt W. Forster, Frank O. Gehry: the Complete Works, Monacelli Press, New York 1998, p. 80. 
9. AIA Honor Awards Program, 1970. 
10. Frank Gehry, intervista con Barbara Isenberg, Tape 14, cit. 
11. Gregory Walsh, in Mildred Friedman, cit., p. 116; Frank Gehry, in Gehry Talks – Architecture + Process, a cura di Mildred Friedman, Rizzoli, New York 1999, p. 46. 
12. Gregory Walsh, conversazione con Jean-Louis Cohen, 2 luglio 2015. 
13. Gregory Walsh, in Mildred Friedman, cit., p. 116. 
14. Frank Gehry, in Gehry Talks, cit., p. 46. 
15. Gregory Walsh, in Mildred Friedman, cit., p. 116. 
16. Frank Gehry, in The Architecture of Frank Gehry, Walker Art Gallery, Minneapolis 1986, p. 185. 
17. AIA Honor Awards Program, 1970. 
18. Frank Gehry, in The Architecture of Frank Gehry, cit., p. 185. 
19. Frank Gehry, intervista con Barbara Isenberg, Tape 14, cit. 
20. Frank Gehry, in Frank O. Gehry / Kurt W. Forster, Cantz, Ostfildern 1999, p. 60. 
21. Frank Gehry, in Alejandro Zaera-Polo, Conversations with Frank O. Gehry, in Frank Gehry 1987-2003, El Croquis, 2006, p. 16.

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