Jean-Louis Cohen (1949-2023) e la sua ultima riflessione su Domus

A una settimana dalla morte dello storico dell’architettura francese, lo ricordiamo con il suo più recente contributo su Domus

Con la sua vita da storico, critico, curatore, ricercatore Jean-Louis Cohen lascia l’eredità di una visione trasversale della storia, capace di leggere nell’architettura il segno della politica di scala globale e locale, gettando luce sull’intima interconnessione, sulle Interferenze, come titolava una sua mostra, di diverse traiettorie e vicende impossibili da considerare come separate.

Docente di Storia dell’architettura alla New York University dal 1994, Cohen era stato anche l’ideatore della Cité de l’Architecture et du Patrimoine di Parigi, oltre che curatore di un grande numero di mostre e ricerche: dalla modernità con le sue contraddizioni, protagonista del padiglione francese alla Biennale di Venezia 2014, agli architetti in guerra di Architecture in Uniform (2011), alla transtemporalità di The Future of Architecture. Since 1889 (2012), ma soprattutto la Casablanca studiata in due decenni con Monique Eleb, il costruttivismo russo , e i grandi lavori su figure totemiche, Le Corbusier per tutta una vita come Frank O. Gehry, di cui in questi anni stava prendendo forma il catalogo dei disegni.

Il rapporto di Cohen con Domus durava dalla fine degli anni ’80, con progetti di cui si era fatto critico, con libri e conversazioni: nel novembre del 2022, sul numero 1073, era comparso il suo contributo più recente, una riflessione sulla presenza ricorrente e diffusa delle forme urbane, col quale lo vogliamo ricordare. 

Domus 1073, novembre 2022

La condizione transurbana

La migrazione delle forme architettoniche dal piano globale a quello locale – e viceversa – è modellata dalle relazioni politiche e culturali tra nazioni e città. Piuttosto che pensare agli edifici e ai modelli urbani esclusivamente in termini polari, opponendo frontalmente la scala globale e quella locale, dovremmo individuare altre configurazioni, che possiamo concettualizzare solo rompendo i modelli esistenti.

Il primo è quello rappresentato dagli imperi e dalle politiche coloniali. Le reti di città sono state generate da strategie di dominio che interessavano territori molto vasti. Nel caso della Grecia, i modelli sono stati esportati dalle metropoli: le città-madre, come nel caso di Dura-Europos, colonia ellenistica nell’attuale Siria, con un piano che seguiva i principi di Ippodamo di Mileto. I Romani esportarono invece le loro norme sulla scala dell’impero. 

Domus 1073, novembre 2022

Nel XIII secolo, un intenso programma di urbanizzazione fu attuato sulle linee di contatto tra Francia e Inghilterra, impegnate in un costante stato di guerra: il risultato fu una rete di centri di nuova fondazione noti come bastide. Regole simili furono utilizzate nel vasto programma di colonizzazione interna intrapreso in Russia da Caterina II, che portò alla creazione di centinaia di nuove città, tra cui Odessa, Kherson, Nikolayev e Mariupol, purtroppo balzate oggi agli onori della cronaca.

La colonizzazione interna della Spagna ha utilizzato la geometria e le norme giuridiche per creare insediamenti urbani che condividessero un medesimo schema reticolare. Rapporto sbilanciato per eccellenza, la colonizzazione ha utilizzato canali tutt’altro che esclusivamente unidirezionali, da nord a sud, tra metropoli e colonie: le scene coloniali hanno talvolta comunicato tra loro secondo circuiti sud-sud. Alcune soluzioni spaziali ed estetiche d’oltremare sono migrate di nuovo nelle metropoli partendo da esperimenti urbanistici, da quelli sviluppati a Casablanca fino ai linguaggi dell’Art Déco, per i quali le colonie e i protettorati hanno agito da laboratorio sperimentale. 

Ci sono molte Venezie nel mondo, così come molte Parigi. Trovano la loro espressione più caricaturale in Las Vegas o in alcune new town cinesi.
Domus 1073, novembre 2022

Il secondo modello oppone lo spazio locale, regionale o nazionale allo spazio universale, privilegiando i sistemi internazionalizzanti come i Congressi internazionali di architettura moderna (CIAM) o il Movimento internazionale per la città giardino, vedendo le città reali solo come manifestazioni locali di questi dispositivi. La rappresentazione più evidente di tale modello fu la campagna per la costruzione di nuove città intrapresa in URSS durante il Primo piano quinquennale, in cui l’ex urbanista di Francoforte Ernst May istituì un ufficio per la progettazione di città ‘standard’.

Adattate alle caratteristiche delle geografie locali, esse condividevano sia un principio strutturale affine, sia abitazioni ed edifici pubblici tra loro simili, basati su un numero limitato di tipologie. Dopo la Seconda guerra mondiale, lo slogan della “città funzionale”, introdotto dal CIAM nel 1933, portò alla ricerca di una modalità universale di rappresentazione delle città, utilizzando la ‘griglia’ del 1947, che riduceva la struttura delle città al dispiegamento delle loro funzioni. Tuttavia, questo approccio riduttivo è stato messo ben presto in discussione, in particolare dai giovani fondatori del Team 10.

Transurbanità può essere definita semplicemente come la presenza più o meno letterale, più o meno completa, di una forma urbana in un’altra. Questa presenza diffusa è stata finora uno dei principali sintomi del rapporto tra globale e locale, e nel mondo di oggi merita attenzione.

Vorrei però proporre un terzo modello, che valorizza le relazioni bilaterali tra scene nazionali e città, individuando processi di idealizzazione attraverso i quali una cultura cittadina o nazionale si idealizza, si identifica con un’altra. Il caso più eclatante è stato quello della sindrome dell’‘americanismo’, emersa nell’Europa del primo Novecento, quando gli Stati Uniti venivano presentati, per usare il titolo del diario di viaggio di Georges Duhamel del 1930, come “scene dalla vita futura”. 

Domus 1073, novembre 2022

Tra le relazioni transurbane apparse nel corso della storia, una delle più evidenti è quella tra Venezia e una serie di altre città. Essa si palesa nelle Città invisibili di Italo Calvino, quando Marco Polo dichiara a Kublai Khan: “Ogni volta che descrivo una città, dico qualcosa su Venezia”. Il mercante veneziano afferma davanti al suo augusto interlocutore che “per distinguere le altre città, devo parlare di una prima città che rimane implicita. Per me è Venezia”. Ci sono molte Venezie nel mondo, così come molte Parigi, che trovano la loro espressione più caricaturale in Las Vegas o in alcune new town cinesi.

Questo terzo modello opera sulla scala delle grandi città, ma piuttosto che mettere a confronto le città come macro entità, suggerisco di osservare ciò che è in gioco, ciò che viene scambiato tra di esse su diverse scale e tra i loro diversi elementi costitutivi. Se ogni città è intesa come un testo, allora la relazione tra due città può essere vista attraverso il prisma di ciò che il critico letterario Gérard Genette ha chiamato ‘intertestualità’ o ‘transtestualità’. Propongo una parodia di questo termine suggerendo quello di ‘transurbanità’, che può essere definito semplicemente come la presenza più o meno letterale, più o meno completa, di una forma urbana in un’altra. Questa presenza diffusa è stata finora uno dei principali sintomi del rapporto tra globale e locale, e nel mondo di oggi merita attenzione.

Immagine di apertura: Jean-Louis Cohen, foto di Mandanarch

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