A casa di Yona Friedman

A giugno 2023 ricorrono i 100 anni dalla nascita del grande architetto e designer, teorico non così utopico della Ville Spatiale. Ritorniamo a quando Domus lo ha incontrato nella sua residenza parigina, tra gli oggetti, i progetti e i libri di una lunga vita.

“L’architettura è usata solo come pretesto per parlare di altri argomenti: la fisica, la società, la comunicazione, la teoria dei grafi, l’economia ambientale, perfino la politica. In tutti questi campi mi hanno aiutato la mia ingenuità e la mia mancanza di erudizione. Un amico, il saggista Robert Jungk, mi chiamava ‘il bambino che ha scoperto che il re è nudo’”. Nei quasi 100 anni della sua esistenza (nato nel 1923, è morto a Parigi nel 2020), il progettista e teorico ungherese, francese per naturalizzazione, si è costantemente dedicato a mettere in discussione gli assunti comuni su architettura e città, diventando ispirazione per intere generazioni di professionisti e pensatori, da quando destabilizzò il decimo CIAM a Dubrovnik nel 1956 con la sua “architettura mobile”, alla sua celebre Ville Spatiale fatta di matrici ridefinibili nell’aria che richiamavano la New Babylon di Constant Nieuwenhuys, agli anni 2000 del suo blog e delle ricerche sull’architettura di sopravvivenza. Negli ultimi decenni Domus aveva uno scambio molto intenso con Friedman, fatto anche di visite alla sua casa-studio di Parigi. Quella uscita nel novembre 2011 sul numero 952 era stata anche l’occasione per immergersi tra i libri della sua biblioteca, e nel panorama di riferimenti di una vita intera.

Domus 952, novembre 2011

Unpacking my library

La casa parigina di Yona Friedman è un capolavoro in sé, la creazione di un mondo mentale sotto forma di arredamento, accumulo di oggetti e tappezzerie disegnate in loco, con frasi meravigliose che impongono una saggezza talmudica: la prima nobile verità è che il mondo è costituito da una miriade di eventi erratici, ciascuno dei quali, nella sua individualità, è più importante della visione d’insieme. La matita di Yona Friedman, quella che governa nel suo cervello ancor prima che nella monumentale varietà delle sue opere, realizzate e non realizzate, e nello straordinario corpus di libri e ragionamenti per immagini e schemi, è presente ovunque: negli angoli; lungo i piani dove si accumulano lampadine che un tempo sono servite per una mostra e che ora fanno piramide una sopra l’altra, senza illuminare alcunché; sugli scaffali stipati di volumi; nelle orecchie sgualcite di biglietti da visita. Tutto, in questo spazio, sembra tratteggiato seguendo un ritmo privo di leggi apparenti, ma dotato di una strana coerenza. Ogni stanza emerge in un colore dominante: quella in cui avviene la conversazione sui libri della vita di Yona Friedman ci accoglie nel blu carta da zucchero, ma più acceso del solito carta da zucchero, in cui figure umane ritagliate dallo stesso artista si susseguono di pannello in pannello, stagliate sullo sfondo blu, come protagonisti di una grande danza da rivoluzione terrestre. Yona è gentile, menziona il lavoro di alcuni italiani che conosce e stima, tra i quali il curatore delle sue opere nella nostra lingua, lo studioso e architetto Manuel Orazi, che con i titoli Quodlibet usciti negli ultimi anni ha dato nuova linfa e ascolto alla ricezione dell’opera di questa personalità unica, ottantotto anni di una vita cominciata da ebreo ungherese, proseguita per un tratto in Israele, e approdata infine in Francia, ma in verità spesa in un continuo viaggiare costante e progettuale. La libreria di Yona Friedman consta di migliaia di volumi, accatastati perlopiù lungo i corridoi, ma l’autore di Utopie realizzabili, con il suo inglese pacato e modulato nelle tipiche durezze di consonanti dell’Est e di chi ha parlato ebraico, mi annuncia subito che non vuole tirarne fuori neanche uno: la lista è tutta nella mente, e in fondo ogni sistema o mondo generato dall’uomo nasce e muore prima di tutto nella mente degli individui, dei gruppi, delle collettività. E visto che la mente va sempre aiutata, la lista è anche su un minuscolo post-it giallo, vergata in inchiostro rosso e in caratteri minuscoli che ricordano i microgrammi di Robert Walser. È una lista universale e interessante, e trova il suo principio dove è in effetti ancestrale e naturale che si trovi un principio. Nella Bibbia. 

Gianluigi Ricuperati

Domus 952, novembre 2011

I dieci comandamenti, ancor più che la Bibbia in sé, sono per me un vero miracolo di densità espressiva, e per me la densità espressiva è più importante di qualsiasi discorso sui libri, perché i mondi sono fatti di espressione, e i mondi sono più importanti dei libri, anche se sono sempre stato un accanito lettore e ho accumulato moltissimi volumi. Ecco perché vorrei cominciare con I dieci comandamenti, che non sono un libro, e sono una porzione infinitesimale di un grande libro, ma che ritengo cruciali. Badi bene, non è per una questione religiosa ma per una questione di densità. I dieci comandamenti hanno costituito la base di un mondo, di una civiltà intera, per secoli, millenni, e in parte ancora adesso, attraverso una prodigiosa economia di linguaggio. Pochissime parole. Con una gravità, nel senso fisico del termine, che circonda ogni segno. È un capolavoro che dà inizio a un mondo attraverso un sistema conciso di leggi, e visto che per tutta la vita sono stato interessato e attratto dall’idea di creare mondi, o di capire come si generano, o come si possono generare, mi sembra inevitabile partire da queste dieci indicazioni laconiche e molto forti insieme. Nel disegno è la stessa cosa: è importante adottare il massimo della densità espressiva per comunicare, e così ho cercato sempre di fare io anche con gli studenti, nell’esercizio dell’insegnamento. Un libro, un romanzo vero e proprio che ha a che fare con la creazione di mondi, è un classico della letteratura occidentale: La montagna incantata, di Thomas Mann. Qui entra in gioco l’architettura, in un certo senso, perché ciò che m’interessa del romanzo non sono i personaggi, non è la storia, ma l’ambientazione fisica, questo luogo superno, questo sanatorio di montagna in cui la civiltà, con le sue eredità e differenze, viene isolata, e insieme cancellata, e riparte: e si ricostituisce, appunto, un mondo da zero. È un’isola a parte, nel mondo esistente, completamente lontana da ciò che già fa parte del suo contesto normale, accettato. Non mi incuriosiscono in particolare i personaggi, come Hans Castorp, sulle cui idee e speculazioni intellettuali sono stati scritti interi saggi, ma la qualità sorgiva dell’invenzione di un ambiente fisico e morale, inatteso e sorprendente.

Domus 952, novembre 2011

Qualcosa del genere succede con la fantascienza: infatti in un’ipotetica lista vorrei inserire diversi titoli appartenenti a questo genere. Ne scelgo uno, forse il più classico e citato di tutti, che è Fahrenheit 451, di Ray Bradbury. In questo caso è doppiamente interessante, anche per questa occasione, visto che si tratta in fondo della storia di un gruppo di uomini che ricostruisce da zero un mondo a partire dalla totale distruzione dei libri, dall’assenza forzata di libri che caratterizza il mondo messo in scena dall’autore. Il libro di Bradbury, tra l’altro, l’ho sempre pensato come una versione narrativa delle grandi idee contenute in un saggio fondamentale di Johan Huizinga, L’autunno del Medioevo, che in qualche misura anticipa una certa atmosfera che si respira nel romanzo. Si tratta per me di letture giovanili, e in certi casi adolescenziali, fatte quasi tutte in Ungheria, ma ci tengo a dire che per me il linguaggio e i concetti sono assai più importanti dei libri in sé. Ciò che conta sono i testi, l’uso della lingua, le forme: ciò che conta è che sono veicoli di informazioni. I libri sono molto importanti ovviamente per una persona della mia generazione, ma la mia nipotina, per esempio, trova quello stesso veicolo di informazioni toccando lo schermo del suo iPad con le dita. 

Domus 952, novembre 2011

Un altro tema che ha caratterizzato la mia ricerca è il percorso antropologico, e per questo vorrei menzionare il lavoro formidabile di Leo Frobenius, la sua raccolta di Fiabe popolari africane, che hanno ispirato negli anni Sessanta una serie di animazioni ispirate alle storie tradizionali che Frobenius antologizza e che hanno esercitato su di me un’influenza e un’attrazione costanti. Così, quando la Biennale di Venezia mi chiese di proporre un’opera, decisi di lavorare su queste narrazioni ancestrali e metterle in forma visiva, nel modo più denso ed essenziale. Non sono mai i libri in sé a impressionarmi, e nemmeno gli autori, anche se nella mia vita ho viaggiato moltissimo e ho incontrato tanti importanti saggisti, scrittori, filosofi, architetti, intellettuali. Quello che m’impressiona sono sempre piccoli estratti, parti ben definite, e a volte non m’interessa neppure tanto il contenuto, quanto le strutture che ci stanno dietro, che contengono il seme di alcuni problemi che per me sono centrali, come quello della densità. 

Ho sempre lavorato molto sulla trasmissione di informazioni visiva, producendo strisce a fumetti, grafici, illustrazioni, e in tutti questi mezzi di comunicazione ed espressione l’aspetto basilare è sempre stato la capacità di convogliare dati complessi attraverso segni comprensibili, ricchi e nel contempo semplici. Ma per me i libri sono soprattutto un archivio di informazioni. Un giorno Arthur C. Clarke, l’autore del racconto da cui fu tratto 2001: Odissea nello Spazio, mi mostrò un pacchetto di sigarette e, aprendolo, mi disse che l’intera British Library avrebbe potuto essere ridotta e contenuta nello spazio di sei sigarette; per me era difficile credergli, ma gli credevo, e a quanto pare era proprio così. I libri non sono essenziali come oggetti, ma come accumulo di informazioni. Ma attenzione: a loro volta queste informazioni devono essere essenziali per la mente che le percepisce e le elabora. In un libro non conta l’autore, non conta il titolo, non conta nemmeno l’interezza del testo, importa solo ciò che la tua memoria vuole trattenere!

Yona Friedman