La prima Biennale d'Architettura di Venezia, del 1980, oltre a rappresentare l'inizio di una storia che a breve entrerà nel suo diciottesimo capitolo, diviene da subito un collettore di pietre miliari e immagini fondative della teoria architettonica contemporanea. La Strada Novissima allestita alle Corderie dell'Arsenale compare in tutti i libri di storia dell'architettura come antologia ed epitome dell’affermarsi globale del postmoderno, e un effetto analogamente dirompente lo avrà il contributo di un grande generatore di icone, Aldo Rossi: un’architettura galleggiante calata in Laguna nel novembre 1979 in occasione della mostra Venezia e lo spazio scenico, voluta dal Settore Teatro e da quello Architettura – diretto da Paolo Portoghesi e prossimo ad inaugurare la Biennale Architettura – destinata a diventare simbolo forse più di tutti gli altri progetti che la accompagnavano. Effimero ed archetipico, il Teatro del Mondo catalizza temi strutturali del dibattito teorico italiano degli anni successivi, come appunto l’effimero e l'archetipo, l’atemporalità delle forme e – come titola la mostra – la presenza del passato. Ad immergersi criticamente nella complessità che lo genera è lo storico e critico Manfredo Tafuri, con un saggio che meriterà anche una rilettura recente, dedicatagli nel 2020 su Domus 1051 dallo storico Fulvio Irace. Il saggio originario usciva invece sul numero 602, nel gennaio del 1980.
Il Teatro del Mondo di Aldo Rossi e la prima Biennale di Architettura
Dall’archivio Domus, la riflessione del grande critico e storico italiano Manfredo Tafuri sull’icona effimera e galleggiante creata per la Biennale di Venezia nel 1980.
View Article details
- Manfredo Tafuri
- 02 maggio 2023
L’éphémère est éternel. Aldo Rossi a Venezia
A Venezia, città dalle promesse non mantenute con i maestri consacrati dell’architettura contemporanea, Aldo Rossi ha trovato modo di dar vita a un oggetto pago della sua inessenzialità. “Teatro del mondo”, in omaggio a uno dei temi cari alla traduzione spettacolare della Venezia cinquecentesca, il “planita” rossiano deve agli incerti programmi della Biennale la propria effimera esistenza. Eppure, destinato a galleggiare per pochi mesi nelle acque della laguna, l’oggetto di Aldo Rossi fa della sua situazione spaesata una ragion d’essere. Il riferimento al Theatrum Mundi cinquecentesco è pertanto solo letterario: le incisioni che documentano i “teatri” provvisori eretti dal Rusconi e dallo Scamozzi ci presentano forme en plein air, allusioni a una totalità cosmogonica dissimulata sotto la patina scherzosa propria dell'apparato da festa, esaltazioni della centralità dissolte in figurazioni e in trasparenze che parlano della maschera istituzionale della Serenissima come valore primario e perenne. Non a caso il Theatrum Mundi è connesso all’ars memoriae. Ciò che in esso, a Venezia, dà spettacolo è lo sposalizio fra l’utopia – la globalità dell’esperienza promessa dallo spazio centrale – e il fenomenico, il relativo il transeunte, incarnato dalla provvisorietà della “macchina” scenica. Il “teatro” di Rusconi è sintomatico al proposito. Le cariatidi che disciolgono in narrazione l’assolutezza della tolos circolare permettono una cordiale partecipazione al rito attraverso il quale la composita collettività veneziana si unifica e si riconosce. La memoria, qui, è in presa diretta con il mito della “libertà” di Venezia: l’assoluto si specchia in un dissolversi dei limiti; la sostanza non entra in conflitto con l’apparenza.
Non questa è la memoria cui si riferisce il “teatro” di Rossi. Al contrario, esso non sembra contenere allusioni alla fluidità dello spazio scenico veneziano, né la sua struttura entra in consonanza con la trama dei percorsi cinetici che rendono concreta la continuità fra l’organismo urbano lagunare e il Kunstwollen tardoromano. Si può anzi dire di più. La forma chiusa e bloccata di Rossi, destinata ad apparire temporaneamente come instant object nello spazio polifonico del bacino di San Marco, contiene in sé un omaggio al senso del limite, al concetto albertiano di finitio, che è specificamente antiveneziano. Tuttavia, a quella stessa finitio si era appellato Palladio nel definire i margini del bacino marciano: sulla linea di orizzonte, come sogni troppo conclusi in se stessi, gli organismi del Redentore e di S. Giorgio Maggiore si stagliano opponendo all’impressionismo dell’imagerie urbana i loro calcolati giochi di compenetrazioni. Austera è per Palladio la tonalità del gioco. Anche quando il suo intervento prende la forma di una macchina scenica provvisoria – ci riferiamo all’arco trionfale e alla loggia corinzia da lui eretti nel 1574 al Lido di Venezia per l’ingresso di Enrico III di Valois – è l’organicità della sintassi ad assumere un ruolo protagonista. Con atteggiamento palladiano Aldo Rossi “scende” a Venezia. E non solo per l’organizzazione spaziale del uo “teatro”, che, per la simmetria su unico asse, l’affiancamento dei corpi scala alla sala centrale e la sua struttura binaria cita palesemente la dialettica formale di villa Capra a Vicenza. Palladiano è piuttosto il suo rifiuto di lasciarsi trascinare nel vortice dei coinvolgimenti in cui la spazialità veneziana tende ad attrarre: l’unica avventura che Rossi si concede è quella generata dal pericoloso incontro fra il rigoroso consistere del suo oggetto e la trionfale pienezza del “corale” che accompagna gli “a solo” della Piazzetta, della Salute, delle chiese che danno spessore al “bordo” della Giudecca. Tanto, che riesce diffìcile a questo punto accettare il riferimento culturale al Theatrum Mundi. La grafia dell’oggetto rossiano è fragile; le direttrici del suo organismo forti. Si osservi il contrasto fra i blocchi scala emergenti e il prospetto della zona centrale reso debole dalle bucature; si tratta del medesimo contrasto – sottolineato dal dosaggio del colore – fra il corpo basamentale e quello superiore coperto a tetto. Tale organizzazione binaria della forma nasconde un significato: il culto del limite non è un assoluto, ma solo uno strumento; la perentorietà della figura planimetrica è lì per essere commentata da un coronamento sommessamente ironico.
A ciò concorre anche la doppia scala delle bucature, che nel solido superiore alludono forse, con la loro reiterazione, alla dialettica luce-ombra degli spazi cupolati bizantini e alla smaterializzazione visiva in questi provocata dai trafori che esaltano il miracolo tecnologico cantato dalle cupole stesse. Solo, che Rossi non disegna una cupola, bensì un tetto piramidale. Il riferimento è oltremodo mediato, e insistere su di esso farebbe perdere di vista un’autocitazione che si cela dietro le forme semplici del “teatro” veneziano. All’interno del progetto presentato al concorso per il centro direzionale di Firenze (1977), Aldo Rossi aveva immesso un organismo ottagonale con funzioni di museo, in cui sembrano calarsi le suggestioni provenienti dal Battistero fiorentino e da quello parmense. Ma ben sappiamo quanto sia adamitica la formazione delle “parole” architettoniche rossiane. Una volta sedimentata una forma, quest’ultima viene compensata del faticoso travaglio subito nel superare il rigoroso sistema di esclusioni ad essa opposto con un insistito processo di affinamento. Non per vezzo – o non soltanto per questo – Rossi presenta in modo sempre più naif i propri dispositivi formali. La parola che nomina la cosa, per lui, crea la cosa stessa. La ripetizione diviene un modo per appropriarsi degli oggetti così creati. Così, il museo-battistero del centro direzionale di Firenze si tramuta nel “teatro del mondo” di Venezia. Con una significativa inversione dei dispositivi spaziali: mentre l’organizzazione del primo segue il principio del Panopticon, nel secondo al centro è un vuoto, a mo’ di spazio scenico forse destinato a rimanere inutilizzato, avvolto dagli sguardi degli spettatori virtuali seduti sulle gradinate o mobili sui ballatoi. Quel vuoto ricorda il teatro del futuro profetizzato da Appia come luogo totale “con o senza spettatori”: è un caso che Yves Klein abbia anch’egli proposto un teatro istituzionalmente privo di attori e spettatori? In realtà, il teatro di Rossi non esclude gli spettatori: solo che è esso che dà spettacolo. E infatti: “nel Maine – ha scritto Rossi nel presentare il suo progetto – sulla costa settentrionale americana vi sono ancora meravigliose e altissime costruzioni di legno, gli antichi fari, la lighthouse, che è più propriamente la casa della luce che osserva ed è osservata”. Il battistero si è quindi trasformato in faro, oggetto geometrico, per la codificazione vitruviana, che attira la visione e permette di vedere.
Ritorna qui uno dei temi rossiani più originali, la riduzione formale e il richiamo alla purezza crudele del regard infantile come esaltazione di un evento formale. Il “teatro” veneziano è infatti destinato ad apparire e a sparire; anche tale sua condizione è necessario assumere come materiale del comporre. Si viene così a scoprire che lo stupito spaesamento dell'oggetto di Rossi, pur non avendo questa volta da reagire contro la cattiva periferia metropolitana, è ancora carico di messaggi alternativi nei confronti del luogo cui esso è destinato. Ma quel luogo non è solo il bacino di San Marco. Una forma sradicata emette i suoi messaggi più autentici solo se la si segue nel corso del suo viaggio. Il “teatro” di Rossi è pensato come forma viaggiante: l’autore stesso ricorda i barconi che scendono dal Ticino nella nebbia lombarda trasformandosi in barche da carnevale, le costruzioni sull'acqua che appaiono nelle incisioni delle città gotiche settentrionali, il mondo di zattere che contorna le città orientali, le torri, i mulini, i luoghi misteriosi posti fra acqua e terra che fiancheggiano la Limmat a Zurigo. Non è quindi illecito ritenere che il vero spettacolo offerto da questo teatro sia quello svolto prima in cantiere, a Fusina, dove l’armatura metallica lentamente ha preso forma sullo sfondo di una campagna attonita e di ciminiere lontane che sembrano messe lì a bella posta per accentuare la surrealtà dell’oggetto architettonico, poi nella processione del suo trasporto e del suo ancoraggio finale. Il prender forma, dunque, assume un aspetto rituale, in qualche modo dettato dal soggetto stesso dell’opera. Con un risultato: l’effetto estraniante di questa costruzione, che allude a un mondo di memorie troppo ricco per essere interamente esplicitato, si moltiplica nel corso del suo realizzarsi e del suo tragitto. Ciò significa che per esso non esiste alcun luogo dove effettivamente depositarsi: il suo “viaggio” permette gli incontri più avventurosi e casuali, resi del tutto surreali dalla ieraticità del suo contegno. Ma è proprio tale acuirsi delle valenze allusive a contatto con la realtà di Venezia che carica quella ieraticità di significati: la sua cifra è veramente quella che promana dalle “cose mute”, ma per questo aperta a decifrazioni infinite.
L’analogo di cui questa volta ci parla Aldo Rossi è iscritto nel problema stesso della visione. Il suo “faro” emette una luce troppo forte rispetto al molteplice e al metamorfico di cui è imbevuto lo spazio urbano della Serenissima; la sua evidenza strappa impietosamente maschere che il tempo ha incollato ai volti. Il confronto fra il “teatro del mondo” veneziano e il “teatrino scientifico” progettato da Rossi nel 1978 si impone. Il primo tende a ridurre i personaggi architettonici a lui circostanti ad attori di una statica pièce; il secondo comprime in sé il mondo fantastico dell’autore in un collage di memorie. I risultati ottenuti sono complementari. La riduzione formale non insegue più il mito dell’“origine”, né l’immaginario che esso impone fa dell’assenza il suo soggetto principe. Lo sguardo, che abbraccia questi universi di segni sempre più configurati come apparizioni inquietanti, non ottiene da essi che indicazioni ermetiche per imboccare sentieri che si avvolgono a spirale nelle profondità dell'intransitabile.
Il teatro, inaugurato I’11 novembre 1979, è stato realizzato dalla Biennale. Esso rientra nelle iniziative del settore architettura diretto da Paolo Portoghesi e del settore teatro diretto da Maurizio Scaparro.
Il teatro è stato costruito nei cantieri di Fusina e trasportato con un rimorchiatore a Venezia dove è stato collocato alla punta della Dogana. Il teatro è impostato su travi in ferro saldate sul piano zattera. Ha una altezza complessiva di circa 25 m dal piano della zattera alla bandiera. E costituito da un cubo (di 9,50 m di lato e alto 11 m) cui è sovrapposto un ottagono alto 6 m. Alla sommità del cubo si accede ad un terrazzo che ha le visuali sulla Dogana, su San Marco, su San Giorgio e sulla Giudecca.
La struttura del teatro è in tubi di ferro; è rivestita in legno all'esterno e in parte all'interno. La copertura è in legno rivestito di lamiera zincata.
Tipologicamente il teatro unisce il sistema delle gradinate a quello delle gallerie. Le gradinate si affacciano su due lati del palcoscenico centrale divise da una finestra sul lato corto. Sopra si trovano successivamente tre ordini di gallerie.
La capienza è di 200-250 posti ma può essere largamente superata.
Al palco e alle gallerie corrispondono tre ordini di finestre che inquadrano il mare, le costruzioni veneziane, il cielo: così la città è sempre presente e lo spazio scenico si allarga alla architettura di Venezia.
Immagine di apertura: da Domus 602, gennaio 1980