Era logico attendersi che provvedimenti generosi come il Bonus facciate 90% – per “interventi finalizzati al recupero o restauro della facciata esterna degli edifici esistenti” – e il Superbonus 110% – pensato per “favorire gli interventi di efficientamento energetico e antisismici” – stimolassero in maniera significativa l’attività di manutenzione del costruito. Per i non esperti di fiscalità italiana, i numeri indicano la parte del costo dei lavori che i committenti possono detrarre dalle tasse, cedere a terzi o farsi scontare in fattura, a seconda dei casi.
In questa sede non interessano gli aspetti economico-fiscali dei bonus, oggetto fin da subito di critiche per l’enorme quantità di risorse allocate e per la logica di distribuzione a pioggia. Piuttosto, a più di un anno dalla loro introduzione in questa forma specifica, è possibile e anzi necessario sviluppare qualche considerazione di tipo architettonico, che metta in evidenza i loro effetti contraddittori sul patrimonio edilizio e sui paesaggi urbani.
Complessivamente innocua, anche perché temporanea, è la proliferazione senza precedenti delle impalcature, pali e teli. È un fenomeno che in città come Milano è percepibile a vista d’occhio e che meriterebbe di essere quantificato con precisione. Intere vie e isolati sono per così dire christizzati secondo un processo incrementale, privo d’intenzionalità artistica ma di sicuro impatto visivo.
Al contrario, è allo smontaggio dei cantieri che la questione si fa più problematica. Innanzitutto perché quella dei bonus è una città a due velocità – e il lettore perdoni la metafora davvero usurata. Considerando il solo ambito residenziale, a cui si rivolgono prioritariamente, l’impressione è che la promessa del risparmio sia irresistibile per gli edifici d’abitazione più abbienti e ben amministrati, che non esitano a imbarcarsi in massa nella loro “transizione ecologica” e, en passant, danno anche una ripulita a stucchi, modanature e ferri battuti, già non proprio cadenti.
Il sogno, invece, resta spesso inaccessibile ai condomini meno privilegiati e più impolverati, sprovvisti di un capitale iniziale e dalla gestione interna più complessa e conflittuale. Un’osservazione empirica – che sarebbe bello vedere smentita dai dati ufficiali – restituisce l’immagine di una città dove i bonus amplificano, e non riducono, il divario manutentivo tra quartieri borghesi e popolari.
Spostando l’attenzione alla scala del singolo edificio, poi, emerge un’altra dicotomia, quella tra facciate su strada soggette al bonus e facciate interne che ne sono escluse. Al prospetto pubblico tirato a lucido fa da contraltare quello privato ben più scalcagnato. Più sostanzialmente, i volumi edilizi sono sottoposti a una sorta di lobotomia quasi koolhaasiana, con l’uniformità degli involucri rimessi a nuovo che non rappresenta più e anzi nasconde la varietà delle condizioni materiali e sociali che contengono.
Infine, alcuni avvenimenti recenti hanno portato alla luce un’altra criticità non trascurabile. Il Superbonus può essere un nemico pericoloso per il processo di salvaguardia dell’architettura moderna. Gli edifici residenziali costruiti tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, opera di architetti più o meno famosi, costituiscono nel loro insieme un patrimonio di qualità media elevatissima, soprattutto in alcune città – a Milano in primo luogo ma anche a Torino e in proporzioni diverse a Roma e a Napoli. Per la maggior parte si tratta di edifici ancora in pieno utilizzo, al cui valore architettonico sono sensibili gli specialisti ma raramente il grande pubblico di chi li abita, e soprattutto che non sono protetti da alcun vincolo.
Ci sono tutti gli ingredienti perché si scateni la tempesta perfetta, pronta a colpire proprio una delle loro parti di maggior valore: le facciate, che con le preziose texture dei mosaici, delle ceramiche, dei clinker, dei mattoni e dei calcestruzzi a vista – materiali per varie ragioni quasi dimenticati dall’edilizia contemporanea di tutte le fasce di mercato – si compongono in un paesaggio urbano straordinario per la ricchezza e la varietà delle sue tinte, consistenze e chiaroscuri. La diffusione indiscriminata della mano-di-bianco e del cappotto termico rischia di farne tabula rasa.
Ben venga, quindi, dopo la scarsa visibilità ottenuta dalla distruzione dei clinker del Condominio di via Nievo a Milano di Luigi Caccia Dominioni (1955-1957), la mobilitazione di un gruppo di docenti del Politecnico per tutelare da interventi invasivi il Palazzo INA in corso Sempione di Piero Bottoni (1953-1958), opera maggiore del moderno milanese, di cui viene richiesta la dichiarazione di interesse culturale.
È il momento di costruire un precedente, che serva da riferimento per le tante occasioni simili che si riproporranno certamente nei prossimi mesi e anni. In questo processo di trasformazione della città, che si manifesta per punti ma finisce per incidere sulle qualità visuali e materiche dell’intera compagine urbana, le ragioni della cultura architettonica devono accedere al tavolo delle trattative e confrontarsi alla pari con le preoccupazioni ambientali-energetiche e con le esigenze (a volte) comprensibili dei proprietari degli immobili.
Immagine in apertura: Palazzo INA, Piero Bottoni, Corso Sempione 33, Milano, 1953-58. Courtesy Archivio Piero Bottoni, Dastu, Politecnico di Milano