Inaugurata in gennaio e aperta fino ad agosto, l’esposizione “Aerodream” al Centre Pompidou-Metz racconta la spettacolare storia dei gonfiabili, tra arte, architettura e design. La mostra (che approderà alla Cité de l’Architecture di Parigi dal 6 ottobre 2021 al 14 febbraio 2022) presenta un percorso storico che dalla Seconda Guerra mondiale a oggi rivela le inattese funzioni, politiche, critiche e utopiche, dei palloni prodotti da artisti e architetti. Abbiamo intervistato Frédéric Migayrou, curatore capo dell’Architettura e del Design e direttore aggiunto del Musée National d'Art Moderne - Centre Pompidou, nonché professore alla Bartlett School of Architecture di Londra, che ha curato l’esposizione insieme a Valentina Moimas.
L’esposizione mette in avanti un materiale, la plastica, ma soprattutto un elemento, l’aria. Quale è la storia di questo legame tra aria e architettura?
Le strutture gonfiabili evocano l’idea primigenia del soffio vitale, ma anche del volo. L’immagine della bolla d’aria che permette all’uomo di staccarsi da terra appare nell’iconografia antica, ma è solo con i fratelli Montgolfier, nel XVIII Secolo, che diventa realtà. Per questo la storia dei gonfiabili si snoda in parallelo alla storia dell’aviazione. Ma, nel momento in cui gli aerostati e i dirigibili lasciano il posto all’aviazione meccanica, sono le ricerche spaziali, la possibilità per l’uomo di raggiungere gli spazi siderali, ad affascinare gli architetti e gli artisti. Anche se l’esposizione si concentra su delle architetture pneumatiche che, paradossalmente, ritornano a terra e ritrovano una relazione con il suolo, la metafora della dimensione aerea persiste, come una tensione ideale
Come nasce l’interesse per questo tipo di struttura da parte degli architetti?
Proprio con la ricerca spaziale. Anche se non realizza dei gonfiabili, è Lucio Fontana, con la nozione di spazialismo, a inaugurare un nuovo rapporto con l’atmosfera, con lo spazio infinito da esplorare. La sua influenza è percepibile nell’opera d’Yves Klein, di Piero Manzoni, del gruppo Zero o del gruppo T, ma anche degli artisti tedeschi Otto Piene e Hans Haacke, che, spostatosi negli Stati Uniti, produrranno diversi importanti esperimenti con palloni e altre strutture pneumatiche. Negli anni 60, mentre l’industria spaziale si sviluppa, i gonfiabili iniziano a diffondersi in diversi settori – con l’industriale Walter Bird e la società Birdland, o l’ingeniere Frei Otto. È a quel punto che gli architetti visionari inglesi, come Archigram o Cedric Price, iniziano a immaginare delle architetture leggere capaci di staccarsi dal suolo o di diventare degli involucri per il corpo. Storicamente é l’arte che apre la strada, l’architettura segue.
Tra gli anni 60 e 70 si situa l’age d’or dei gonfiabili – con le diverse correnti radicali e utopiste, inglesi, austriache, giapponesi e italiane. In quel momento storico, caratterizzato da tensioni politiche e sociali, gli architetti moltiplicano i loro esperimenti con le strutture pneumatiche – nei quali le bolle pneumatiche definiscono uno spazio di vita alternativo. Già Buckminster Fuller aveva pensato un’architettura senza fondazioni, ma poi con i movimenti hippie e radicali, con gruppi come AntFarm, i gonfiabili diventano degli strumenti critici, di un’architettura climatizzata ma incondizionata, sovversiva e libera: più che un’utopia, un’atopia.
La sezione centrale della mostra ricorda tre esposizioni storiche di quegli anni. Quale è l’importanza di queste esposizioni?
L’esposizione “Structures gonflables”, organizzata dal gruppo Utopie nel 1968, riunisce per la prima volta diverse esperienze tra arte, architettura e critica, e rivendica una posizione critica nei confronti della tradizione del modernismo. In questo contesto, politicamente impegnato, i gonfiabili rappresentano un modo di produzione facile, leggero, aereo contro una visione dell’architettura come massa e fondazione, e contro la pesantezza dei materiali industriali del brutalismo, come il cemento. Le due edizioni di documenta a Kassel (1968, 1972) danno grande visibilità ai gonfiabili, prodotti da artisti – come Panamarenko, con il suo Aeromodeller, o Christo con il suo 5,600 Cubic Meter Package – ma anche da architetti come il collettivo austriaco Haus-Rucker-Co che presenta la sua celebre bolla (Oasis Nr.7, 1972) che esce da una finestra del Fredericianum. Se per gli artisti, tali strutture funzionano come dei non-oggetti, dei supporti concettuali che congiurano contro la rappresentazione e la materialità dell’arte, per gli architetti essi costituiscono degli spazi sperimentali di emancipazione da una visione produttivista della società. Infine, l’esposizione universale di Osaka (1970) è allo stesso tempo l’apogeo e il canto del cigno dei gonfiabili. Diversi paesi esplorano soluzioni innovative e visionarie, come gli americani con il progetto EAT (Experiment in Art and Technology) o i giapponesi con Taneo Oki e il gruppo Gutai.
Storicamente é l’arte che apre la strada, l’architettura segue.
Come viene utilizzato il gonfiabile come strumento critico?
In alcuni casi, l’utilizzo di gonfiabili risponde a un progetto di impegno ecologico, in altri casi diventa uno strumento di protesta politica – che permette degli interventi nello spazio pubblico – è il caso in Italia di Franco Mazzuchelli – un artista da riscoprire - e del gruppo radicale UFO con le loro azioni Urboeffimeri. Il gonfiabile permette un’occupazione dello spazio pubblico, come un elemento perturbatore, come un corpo estraneo che invade il territorio normalizzato della città. Allo stesso tempo, esso introduce una dimensione ludica, performativa e ironica. Mazzuchelli, per esempio, riattivando la pratica della deriva situazionista, con un obiettivo apertamente politico, dissemina e “rende disponibili” delle strutture in polietilene trasparente nelle periferie di Milano, anche davanti alla fabbrica dell’Alfa Romeo (1970) – affinché il pubblico possa reinventare gli usi dello spazio, gli adulti possano ridiventare bambini e gli operai possano giocare a fare i re.
Dopo la crisi petrolifera del 1973, i materiali plastici che avevano rappresentato il mito del boom economico e della conquista lunare negli anni 60, sono guardati con sospetto e le sperimentazioni con le strutture gonfiabili sembrano destinate a estinguersi. Eppure, negli ultimi anni, esse sono ritornate di moda. Cosa le rende di nuovo attuali?
In effetti la critica della società dei consumi e la crisi ecologica segnano una presa di distanza dalle strutture effimere e dai materiali plastici. Ma questi strani oggetti che sono i gonfiabili hanno costituito storicamente una tappa fondamentale nella storia dell’architettura, indicando come delle premesse sperimentali l’avvento del post-moderno, ma di un post-moderno che resta malgrado tutto all’interno della modernità e non cede allo storicismo e al relativismo. Al contrario, si incunea nella modernità come una scheggia critica, radicale, proponendo delle antropologie alternative, nel rapporto agli spazi abitabili come alla dimensione urbana. La stagione dei gonfiabili é stato un momento privilegiato di libertà. In realtà, il gonfiabile non scompare: negli anni 60 e 70, la plastica é dappertutto, non é più solo materia ma simbolo di un capitalismo che fa l’elogio del nomadismo e dell’effimero come prodotti di lusso – come mostra con sarcasmo corrosivo il film La decima vittima (1965) di Elio Petri. Quando entra nelle case, il gonfiabile abbandona la città.
E in effetti, oggi i gonfiabili tornano di moda – con artisti come Anish Kapoor e architetti come Diller Scofidio et Renfro, Nicholas Grimshaw, Arata Isozaki, Herzog & de Meuron, Achim Menges, Kengo Kuma. Permettono di reinventare le possibilità spaziali, introducono diverse esperienze percettive e cognitive: in questo momento di transizione, la metafora del volo, la dimensione volatile, aerea, la presa di distanza dal suolo, sempre più malato e consunto, si afferma. Il ritorno dei gonfiabili indica che è necessario decollare, che la parentesi del post-moderno si sta chiudendo definitivamente e che siamo all’alba di una nuova era