Saype abbrevia in una unica parola say e peace. È il nom de plume di Guillaume Legros, nato in Francia, cresciuto in Svizzera, artista, nell’elenco dei 30 under 30 più influenti secondo Forbes nell’arte e nella cultura. La sua specialità sono gigantesche opere sostenibili di land art dipinte sui prati. Il progetto che lo impegnerà fino al 2024 sono queste gigantesche mani che si stringono e si tengono insieme, chiamato Beyond Walls, un’opera globale che alla fine del suo corso avrà toccato 5 continenti e più di 30 città, dopo essere partito dal Campo di Marte di Parigi, ai piedi della Torre Eiffel. “La più grande catena umana della storia“, che vuole riportare l’arte alla sua responsabilità, come spiega Saype stesso: “credo profondamente che solo rimanendo insieme l’umanità possa rispondere alle più grandi sfide del nostro tempo”.
Le mani di Saype: “se l’arte è per una élite, non è interessante”
Dipinge opere gigantesche sull’erba, con una tecnica sostenibile. Il progetto Beyond Walls lo impegnerà fino al 2024 e l’ultima tappa in ordine di tempo è Torino: l’intervista.
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- Alessandro Scarano
- 08 ottobre 2020
L’ultima tappa in ordine di tempo, la settima installazione dell’opera, è Torino, una delle città più attente all’agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, al Parco Archeologico, con il sostegno di Lavazza e in collaborazione con i Musei Reali, che gli dedicano la sua prima personale. Ed è in una delle sale della Galleria Sabauda, vicino alle foto in grande formato delle mani che ha dipinto finora tra Africa ed Europa, che incontro l’artista a inizio ottobre, a qualche centinaio di metri in linea d’aria dall’opera torinese da 6400 metri quadri appena completata, cappellino e maglietta con logo Saype in bella vista, come indossa tutto il team di ragazzi che lo segue, tutti amici d’infanzia, più un fotografo. “La fotografia è importante”, puntualizza Saype, in controluce e sorridente. A vederlo insieme alla sua crew, mi ricorda tanti trapper italiani, più o meno della sua età, che lungo la strada del successo si sono portati dietro gli amici di sempre.
Perché un’opera fatta di mani?
Le mani sono un simbolo universale. Attraverso le mani vediamo la storia di una persona.
In quella di Torino, salta all’occhio il tatuaggio.
Il tatuaggio, in cui c’è un elemento floreale, l’alloro, nasce dall’idea di fare dialogare l’antico, simboleggiato dall’antica Roma, con il moderno.
Ci siamo abituati al fatto che le arti che parlano a tanti sono la musica, o al limite Netflix. Poi arrivi tu con le tue opere gigantesche nel centro città, cariche di senso.
Penso che l’arte sia interessante quando non è per una élite. Quando vado in un museo di arte contemporanea mi rompo le palle. È tutto sempre molto concettuale, se voglio rompermi le palle su dei concetti, mi compro un libro di filosofia. Un’opera che si fa capire, questo sì che mi tocca. Io sono più sensibile all’arte più antica, che è più figurativa, perché non c’è bisogno di grandi discorsi per capirla. Quando riusciamo a smuovere qualcosa con l’arte, con la mia arte, abbiamo vinto, l’obbiettivo è raggiunto.
Non ti fa paura la densità di un progetto che dura cinque anni?
Ne sto facendo tre in parallelo, quindi no (sorride).
La tecnica di pittura sull’erba da dove arriva?
Anni di ricerca per minimizzare il mio impatto. Uso il gesso per il bianco, carbone di legno per il nero e la caseina, una proteina del latte, per fissare la pittura sul prato.
I tuoi foot murales sono immensi.
Per realizzarli uso una tecnica un po’ arcaica, faccio una sorta di griglia su uno schizzo che poi viene riportata sul suolo utilizzando dei piccoli paletti ogni 4 metri. Questo mi permette di lavorare nello spazio più ampio.
Come dipingi?
Un assistente prepara senza sosta la pittura, un miscuglio di pigmenti. Un compressore piuttosto grande, con un tubo di sessanta metri, mette sotto pressione la vernice. Comincio a fare uno schizzo, parto dal più chiaro al più scuro, tutto qua.
Hai sempre dipinto sull’erba?
No, facevo graffiti. Ho cominciato a 14 anni. Poi nel 2012 la prima volta con i prati. Ci sono voluti tre anni per mettere a punto la tecnica.
Immagino non sia stato facile. Anche economicamente.
In quel periodo lavoravo anche in una galleria d’arte, in un atelier, facevo tante cose diverse. Facevo diverse esposizioni in fiere a Parigi, Londra, Berlino. Questo mi ha permesso di coprire i costi, che erano enormi.
Niente drone?
Il drone viene usato solo per le foto, poi.
Quanto dura una tua opera?
Dipende dalla crescita dell’erba. Che a sua volta dipende dal meteo e dalla stagione.
Questa di Torino, per esempio?
In questo caso, il parco verrà aperto al pubblico e molte persone ci cammineranno sopra. Penso un paio di settimane e non ci sarà più.
Un'opera effimera: volutamente effimera?
C’è un senso per tutto. L’idea è nata quando leggevo molta letteratura buddista, dove viene detto che tutto è in continua evoluzione e quando ci fissiamo su qualcosa che rimane statico, bene, lì si crea la sofferenza. Siamo votati a uno sviluppo continuo.
Immagino che questo, quindi, riguardi la tua opera in generale, non solo questo caso.
Nel mio atto di pittura vedo un atto filosofico, paragonabile alla mia esistenza. E anche la mia esistenza è effimera, come quella di tutti. La nostra vita è votata a diventare solo una traccia del nostro passaggio in questo mondo.
- Saype
- Beyond Walls
- Torino, Parco Archeologico Porta Palatina e Musei Reali
- 2020