“Quando senti semplicemente di aver bisogno di più gentilezza, il buon Tumblr è come il cervello di qualcuno. Avere la possibilità di guardarci dentro è qualcosa di davvero straordinario”, raccontava già nel 2014 l’artista svedese Arvida Byström, che dell’estetica “social” ha fatto la sua firma d’autore. C’è però una piccola controindicazione: sui social, ogni “like” che riceviamo ci dà una piccola scarica di dopamina, spingendoci a tornare continuamente a controllare se abbiamo ottenuto altro consenso. E così, come scrive Katherine Omerod in Why Social Media Is Ruining Your Life, diventa facile ossessionarsi per la nostra immagine digitale, di cui abbiamo l’illusione di poter controllare l’apparenza. Ci abituiamo a vedere versioni perfezionate non solo di noi stessi, ma anche degli altri, dimenticando che quelle immagini sono ritoccate: di conseguenza, le piattaforme online si configurano come specchi deformanti che riflettono una società ossessionata dalla performance e dalla spettacolarizzazione del sé.

Ma chi siamo quando ci esibiamo per un pubblico invisibile? Quali sono le dinamiche di potere che regolano la nostra presenza online? E, soprattutto, quale ruolo gioca l’arte nel decifrare e sfidare queste dinamiche? Lontano dall’essere un semplice campo di innovazione tecnologica, il mondo digitale diventa un luogo di lotta estetica e politica, dove narcisismo, manipolazione e vulnerabilità si intrecciano in modo inestricabile. Nelle mani degli artisti, tuttavia, i social diventano strumenti per esplorare le complessità della condizione umana nel contesto tecnologico contemporaneo, in una costante tensione tra narcisismo e autenticità e finzione.
L’arte come specchio della cultura digitale
Tra le prime pioniere, in questo senso, troviamo la statunitense Petra Cortright (1986), Santa Barbara, California, Stati Uniti e il suo Vvebcam (2007), un semplice video di YouTube che diventa una riflessione sulla rappresentazione di sé nell’era digitale. Nel filmato, l’artista si mostra davanti a una webcam, giocando con filtri ed effetti visivi preimpostati: il suo gesto di mettersi davanti alla videocamera è al tempo stesso un atto di vulnerabilità e una semplice messa in scena. Il risultato è una critica del voyeurismo implicito nella fruizione dei contenuti online, che sottolinea come la banalità quotidiana possa essere trasformata in merce attraverso algoritmi e dinamiche di attenzione.

Alcuni anni dopo, la argentino-spagnola Amalia Ulman (1989) dimostra come i social media possano essere una tela su cui proiettare l’illusione della perfezione. Attraverso Excellences & Perfections (2014), una performance di cinque mesi su Instagram, l’artista ha costruito una narrazione di ascesa e caduta di un suo alterego, incarnando lo stereotipo della giovane donna ossessionata dalla bellezza e dal successo. Pubblicando selfie glamour, immagini che alludevano a interventi di chirurgia estetica e scene di vita apparentemente lussuose, Ulman ha ingannato migliaia di spettatori, che hanno interpretato il suo profilo come autentico (dimostrando quanto sia facile manipolare le percezioni altrui in un contesto in cui la validità delle immagini supera quella delle parole).
Le piattaforme online si configurano come specchi deformanti che riflettono una società ossessionata dalla performance e dalla spettacolarizzazione del sé.

Corpi, identità e conformismo digitale
Anche Arvida Byström, come Ulman, utilizza il proprio profilo Instagram per esplorare e sfidare gli stereotipi di genere e le convenzioni di bellezza imposte dalla cultura online. Le sue immagini, spesso volutamente provocatorie, mettono in discussione la rappresentazione del corpo femminile e l’oggettivazione sui social media. Così, Byström denuncia il modo in cui i social media incoraggiano una conformità estetica: luoghi di auto-espressione e, contemporaneamente, di oppressione.
Si svolge invece nel mondo reale American Reflexxx (2015) di Signe Pierce (classe 1988): una performance potente e disturbante in cui l’artista cammina per le strade di una cittadina americana vestita in modo provocatorio, filmata da una GoPro. Le reazioni ostili e violente dei passanti sono al centro dell’opera. L’operazione artistica diventa poi un video virale sui social: se su un primo “livello” di interpretazione, l’opera mette a nudo il voyeurismo e il giudizio sociale, il video online diventa un esperimento sociale che riflette sulla vulnerabilità e sulla spettacolarizzazione della violenza nell’era digitale.

Attraverso lenti diverse, queste artiste – che hanno in comune di essere donne, e tutte millennial, la prima generazione a vivere l’impatto dei social sulla percezione di sé stessi e del proprio corpo – dimostrano come l’universo online sia uno spazio di possibilità creative ma anche un terreno insidioso di manipolazione e alienazione. Il contributo di queste opere è infatti duplice: da un lato, ci permettono di comprendere meglio le dinamiche culturali e psicologiche che governano le nostre interazioni digitali; dall’altro, ci spingono a interrogare il nostro stesso ruolo in questo sistema. In un modo o nell’altro, quando la distinzione tra reale e virtuale si fa sempre più sfumata, l’arte si conferma uno strumento indispensabile per decifrare le complessità dell’identità e delle relazioni umane.
Immagine di apertura: Arvida Byström Coexist, 2022. Courtesy Galerie Kandlhofer