Il Rome Prize è un riconoscimento che dal 1896 consente ad artisti e ricercatori statunitensi di trascorrere un periodo di studi presso l’American Academy in Rome, scoprendo l’Italia da un edificio classicheggiante sul Gianicolo. In architettura, il premio si associa a nomi come Colin Rowe, Louis Kahn, Richard Meier, Robert Venturi: tutti illustri, ma tutti indiscutibilmente uomini, e bianchi.
A fare le valigie per Roma nel 1970, invece, troviamo June Jordan (1936-2002), la prima donna afroamericana vincitrice del Rome Prize, nel campo dell’Environmental Design. La pratica di Jordan è quella di un attivismo per l’uguaglianza razziale e di genere che si esprimerà attraverso la creazione e la critica dello spazio, quello fisico e quello della parola, fortemente modellato dalla sua biografia.
Si interessa subito di studi d’architettura, ma non è una via facile, per una giovane madre di Harlem non certo benestante. Poi, proprio ad Harlem, arriva il 1964, i riots seguiti all’uccisione di un quindicenne afroamericano da parte della polizia, una ulteriore presa di coscienza del potere dell’ambiente sulle vite e le possibilità: Jordan va a cercare Richard Buckminister Fuller, e con lui sviluppa il progetto Skyrise for Harlem. È un progetto di habitat, uno strumento spaziale che offre a chi risiede in quartieri bollati come ghetto non una rimozione, ma un miglioramento egualitario delle condizioni di vita, in quindici strutture coniche e trasparenti che allineano per cento piani nuovi alloggi aperti a luce ed aria più sana.
Il progetto viene pubblicato su Esquire, classificato come slum clearance e col solo Fuller accreditato come progettista: Jordan ancora deve accettare l’autorialità del solo articolo, ancora una volta per ragioni economiche. C’è proprio questo tratto di realtà spesso cruda ad attraversare tutta la sua vicenda, tratto che la rende unica saldandosi con l’aspetto invece immaginativo della poesia come strumento di ricerca e lotta.
Jordan continua ad integrare i media: “‘Le idee devono andare oltre l’architettura’, diceva, ‘oltre l’urbanistica e l’accademia, dobbiamo raggiungere le masse, le persone’, e la sua risposta era quella di uno scrivere per immagini (…) Lei peraltro non aveva studiato disegno, in specifico, anche perché nessuno le aveva potuto pagare una scuola d’arte. È già un miracolo che abbia potuto continuare con lo scrivere”. È quello che ci ha raccontato Lindsay Harris, curatrice di June Jordan. The Poetry of Design, la mostra che l’American Academy in Rome dedica ora alla sua ex-alunna.
I lavori esposti dischiudono un’espressione basata sul vedere, sull’essere visibili (Who look at me è il titolo del libro di poesia e pittura che Jordan pubblica nel 1969, come strumento per contrastare il razzismo tramite la consapevolezza e la felicità della propria immagine) e soprattutto un’espressione trasversale e crossmediale – pittura, parola, libro, fotografia, progetto – che fa sì che Fuller la possa sponsorizzare per il Rome Prize del 1971 in un ambito ancora fluido come quello dell’Environmental Design.
La mostra parte da questi presupposti e da quello specifico periodo, esplorando il lavoro di Jordan su Roma e sul Mediterraneo, legato allo spazio come forma, e come strumento di lettura e trasformazione della vita, presto riconnesso ad un ruolo di trasformazione delle vite, come già i progetti per New York avevano anticipato. Compaiono fotografie, passaggi di film, poesie che parlano come progetti, un romanzo, His own where, che è una storia di relazioni raccontate attraverso gli spazi: si svolge in America, in copertina ha una scala, ma è una scala ben precisa di Roma.
C’è la storia dell’incontro con l’educatore ed attivista Danilo Dolci, che Jordan va a trovare in Sicilia e di cui si troverà ad affrontare un parziale crollo del mito, trovandosi davanti una figura ancora tutto sommato figlia di un sistema patriarcale come quello italiano del dopoguerra, ma che anche per questo potrà descrivere nella sua natura nient’altro che umana, nel saggio Danilo Dolci: one good man che uscirà sulla New York Times Book Rewiew nel 1971.
Quella di Jordan è la storia di una lettura dirompente, che ha precorso quelle spatial practices e l’attivismo space-based radicati nella contemporaneità più totale – storia dell’ultimo decennio come dei temi che si annunciano strutturali nella Biennale di Venezia 2023 – che lei porterà poi avanti col suo insegnamento alla City University of New York, e che oggi anche il campo del design riconosce, accettando persino di essere solo una tra le tante aree abbracciate da un’azione, una vita, così strutturalmente trasversale.
Immagine di apertura: unknown, June Jordan. Rome, c. 1970. Gelatin silver print 20.3 x 25.4 cm (8 x 10 in.) Credit Line: June Jordan Papers, Schlesinger Library, Radcliffe Institute for Advanced Study, Harvard University
June Jordan, The Poetry of Design
a cura di Lindsay Harris
Fino all’11 giugno 2023
American Academy in Rome
Via Angelo Masina 5, 00153 Roma Italia