Gennaio 1984. Un uomo si aggira per Martina Franca, Puglia, a bordo di una Fiat 500 di almeno vent’anni prima. Indossa grossi occhiali da sole, da sciatore si direbbe, come lo sono gli stivali che porta ai piedi. Raccoglie vecchi parti di mobilio, testiere di letti istoriate con immagini religiose che raccontano il legame del luogo con la più profonda tradizione cattolica. Poi, li ricopre di graffiti. Anche la 500 – donatagli per l’occasione – è tutta un graffito.
L’uomo è Rammellzee, artista newyorkese nato nel 1960 da madre afroamericana del Queens e padre di origini italiane, che definisce il suo nome d’arte (quello di battesimo, si narra, nessuno lo ha mai conosciuto) come un’equazione: RAMM:ΣLL:ZΣΣ, dove la lettera M sta per magnitudine, le due L rispettivamente per longitudine e latitudine, e la Z per la barra di zinco.
Si trova in Puglia per una residenza allo Studio Carrieri Noesi, dove poi tornerà regolarmente nei mesi e anni a seguire, come nell’occasione della collettiva sulla nuova graffiti art statunitense “La Lettera Emancipata” assieme a Phase 2, Daze e Ero, e in dialogo con Achille Bonito Oliva, o di un’altra mostra curata da Valeria Camerino come riportato anche sulle pagine di Domus 650.
Definire Rammellzee come semplice writer, però, sarebbe limitativo, tantomeno renderebbe giustizia al culto che accompagna la sua persona, per quanto spesso erroneamente dimenticata dal grande pubblico. Come recita il titolo di un recente documentario sull’artista “Rammellzee: it’s not who, but what”. L’artista può essere considerato un pioniere non solamente in ambito artistico, ma anche per il più ampio lascito culturale. Un anticipatore della filosofia Afrofuturista oggi fondamentale fonte di ispirazione per i grandi creativi afroamericani contemporanei, nonché una figura chiave per introdurre l’Italia degli anni ‘80 ai graffiti, all’Hip Hop e a una sensibilità artistica sino ad all’ora inedita nello Stivale.
Per molti la sua persona è, infatti, anche legata alla musica. Beat Bop, il suo singolo di debutto del 1983 prodotto dall’amico e collega Jean-Michel Basquiat (che ne ha anche illustrato la copertina) è stato inserito dalla rivista Rolling Stone nella sua lista dei 100 Greatest Hip-Hop Songs of All Times e oggi, nella sua stampa originale, viene venduto per cifre che superano i $500.
Futurismo Gotico e Panzerismo Iconoclasta
Nella canzone Rammellzee e K-Rob – altra figura di rilievo per gli appassionati di Rap – impersonano rispettivamente un pimp e uno scolaro, improvvisando in sala di incisione (almeno così vuole la leggenda, anche ribadita da K-Rob stesso in un commento su YouTube) un racconto di dieci minuti sullo status quo delle strade di New York a inizio ‘80. E’ da questa esplorazione della realtà urbana che emerge la filosofia di Rammellzee, che si fonda su due pilastri concettuali: il Futurismo Gotico e il Panzerismo Iconoclasta.
Un’ossessione per l’iconografia gotica nata quando l’artista, ancora bambino, si ritrovò a guardare un episodio di Civilisations, serie di documentari del 1969 dello storico inglese Kenneth Clarke. L’impatto visivo fu così segnante, che tra il 1983 e il 1986 Rammellzee si dedicherà, addirittura, a un tour dello Stivale, studiando l’architettura e l'arte religiosa a Firenze, o i dipinti di Gerhard Richter in una galleria romana.
“Rammellzee telefonava dicendo che doveva andare via da New York, perché la polizia aveva ucciso un suo amico. Penso che fosse contento di venire a Martina Franca perché era di origini italiane, e poi perché con gli operai specializzati del posto realizzava opere che gli era difficile fare altrove,” ricorda Lidia Carrieri dell’omonima galleria pugliese.
Tutto ciò, miscelato con l’immaginario sprigionato dal suo programma preferito, Battlestar Galactica, pose dunque le basi per una corrente artistica di cui Rammellzee è stato al tempo stesso profeta e discepolo.
Una lezione a Milano
E’ in una lezione tenutasi nel Maggio del 1983 presso la Facoltà di Architettura di Milano all’interno del corso dell’architetto e artista Corrado Levi che Rammellzee introduce, in dialogo con gli studenti e con la giornalista e critica d’arte Edit DeAk (che a New York aveva fatto conoscere l’artista alla gallerista Carrieri), l’Italia alla sua mitologia fatta di monaci, manoscritti e guerrieri.
Essa nasce dalla consapevolezza che nel mondo gotico sia avvenuta quella che l’artista chiama la “carognata”, ovvero il “furto delle lettere da parte dei monaci, dei vescovi, dei re, degli astrologi, dei matematici.” Ma anche “le prime bande di governo, il primo controllo del territorio,” cioè “il primo vero crimine”.
“Il nemico comune è la lettera, le lettere sono state rubate, il valore fonetico non è quello giusto, e tutti parlano in gergo, non c’è linguaggio, il valore fonetico è ultrasonico, così qui stiamo dicendo ca**ate,” esordisce Rammellzee, con quel piglio profetico che lo accomuna a un altre grande della cultura afroamericana, Muhammad Ali. Nel corso della lezione, addirittura, confesserà per la prima volta, tra il misterioso e il divertito, che il suo vero nome di battesimo è Stephen Piccirello.
Sparare alla lettera
La lettera, depredata, diventa così sia “nemico comune” sia strumento per condurre la lotta, il cosiddetto Panzerismo Iconoclasta. Come spiega, “il panzerismo è l’armamento della lettera”. Da qui l’eloquente titolo che Domus 646 dedica alla sortita milanese di Rammellzee: Sparare alla Lettera. D’altronde l’artista adora fare performance camuffato da gangster afrofuturista, armato di fucile.
Questa lotta è condotta attraverso un manipolo di “guerriglieri alfabetici della parola”, dei legionari-automi che praticano lo “slanguage” e a cui Rammellzee ha affidato nomi quali A One, Koor-B One, Toxic-C One. Una guerra che è necessariamente urbana, da espletarsi sottoterra, dove il writer, ci fa sapere, “è solito scendere per cinque o sei piani. Per combattere”. E’ lì che Rammellzee recupera il materiale di scarto per le sue sculture, e dove, d’altronde, nasce la rinnovata attenzione della sua generazione per la calligrafia, cioè dall’underground inteso come rete metropolitana. L’artista, infatti, ne studia i vagoni che vengono interpretati come delle “metro-truppe” che attraversano le vene della città.
Ecco perché la natura è vista come puro “ornamento”, in contrapposizione al suo lavoro che è “armamento”, figlio di una meccanizzazione insita al discorso della cultura urbana degli anni ‘80.
Nella ribellione al sistema semantico e alle sovrastrutture linguistiche c’è, però, una dedizione per la disciplina che “è luce”, necessaria per vedere in un ambiente d’azione buio come quello della metropolitana. Per il writer la calligrafia è disciplina, come lo è la struttura della lettera. Dopotutto, essa è propria della cultura militare, ossessione di Rammellzee e fondamento del suo Panzerismo.
Rammellzee visionario afrofuturista
Nel legame con la strada si ritrova anche la centralità della musica Hip Hop come strumento di militanza. È Edit DeAk stessa a scrivere su Domus 646 come i graffiti siano simbiotici al battito della metropoli, dunque all’Hip Hop. L’MC, come il writer, diventa un “traduttore con il microfono” che fa a pezzi e rinnova il linguaggio con attitudine futurista, mentre i Breaker – i ballerini che occupano lo spazio pubblico con le loro performance – sono “gladiatori”, il cui nome deriva dal loro “rompersi l’un l’altro, con insulti di linguaggio del corpo”.
Dopotutto, la corrente estetica e filosofica dell’Afrofutrismo coniata a inizio ‘90 dall’autore Mark Dery deve molto alla musica, a figure come Sun Ra, Rammellzee o George Clinton con i suoi Parliament e Funkadelic, le cui copertine illustrate da Pedro Bell hanno contributo a fissarne l’immaginario.
Il Futurismo Gotico di Rammellzee è fatto anche di decine e decine di costumi, i “Garbage Gods”, da considerarsi come vere e proprie opere d’arte realizzate con materiali di recupero, che pongono Rammellzee in una dimensione performativa vicina a quella dell’istrionica icona Queer britannica Leigh Bowery.
Essi traggono equamente ispirazione dalle radici tribali africane (qui uno dei suoi punti di contatto più evidenti con l’opera di Basquiat), dalla mitologia medioevale e da utopie pre-cyber.
L’attualità di Rammellzee
Tutti tratti che rendono l’iconografia e il pensiero di Rammellzee oggi attuale. Sul piano puramente estetico c’è la sua vicinanza all’immaginario delle sottoculture digitali del Creepycore e della Dark Academia, impegnati in un continuo mescolamento di elementi fantasy e cyber. Ma anche la sua fondamentale influenza, così come quella di Basquiat, su quella che oggi può essere considerata l'eredità dell’Afrofuturismo, con artisti quali Virgil Abloh, Beyonce, Jay-Z, FKA Twigs, Kanye West, The Comet Is Coming, o Travis Scott.
Su un piano concettuale, invece, la sua ricerca sulla lettera emerge oggi come una necessità dettata da una società in cui la dominanza dell’elemento visuale su quello testuale sta ridefinendo nuovi ruoli per il linguaggio. Chissà se Rammellzee oggi sparerebbe alla lettera sui social media, d’altronde sono uno spazio quasi più incontrollato e buio della Subway newyorkese degli Ottanta.
A oltre dieci anni dalla scomparsa, rimane l’impressione che nonostante Rammellzee sia stato una figura chiave per l’arte underground Americana degli ‘80, il suo nome spesso sfugga quando se ne citano i protagonisti come Keith Haring e Basquiat. Nello Stivale, però, Rammellzee ha trovato un ambiente accogliente, con cui l’artista ha interagito molto più di quanto i suoi colleghi del tempo abbiano fatto.
“A Martina Franca, e più in generale alla Puglia, all'epoca non c'era tantissima differenza fra il centro e le periferie. Poi le cose sono cambiate, ma anche il movimento dei graffitisti è finito nell'oblio e il graffitista è diventato Basquiat, che non aveva mai messo piede nella metropolitana,” ricorda Lidia Carrieri.
In un’epoca pre-Internet, dove la conoscenza di nuove forme espressive d’oltreoceano spettava alla lungimiranza di critici e curatori (vedi Levi, Camerino, ma anche Francesca Alinovi), il lascito italiano di Rammellzee rimane di fondamentale importanza per avere posto le basi per la graffiti art tricolore e per lo sviluppo di una scena Hip Hop nazionale. Parafrasando un recente articolo a firma di Jacopo Bedussi per Vogue, Rammellzee è in piccola parte stato per l’Italia di metà ‘80 quello che Abloh ha rappresentato per la Milano dell’ultimo decennio.
Immagine di apertura: Rammellzee, camuffato da gangster afrofuturista, spara alla lettera. Foto: Domus 642, Febbraio 1983.