Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Domus 1057, Maggio 2021.
“Ho incontrato Walter per la prima volta a downtown New York: pranzammo insieme in un freddo pomeriggio invernale”. Basta una frase a Doug Aitken, star dell’arte consacrata con il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 1999, per ricreare l’atmosfera del suo primo incontro con Walter De Maria, leggenda artistica del XX secolo scomparsa nel 2013. Poche parole da cui emana un senso di prossimità tra i due artisti, nati entrambi in California, a oltre 30 anni di distanza, e i cui percorsi artistici, seppur differenti e diacronici, sono similmente legati al concetto di frontiera, di territorio da conquistare ed esplorare, che quasi certamente deriva proprio dall’essere originari del lembo estremo del mondo occidentale, l’epico Far West. “Sono sempre stato a conoscenza della sua attività in campo musicale, come il suo brano per percussioni del 1964 Cricket music”, continua l’oggi cinquantatreenne Aitken, allontanandosi dalla dimensione ravvicinata del ricordo personale per riguadagnare la distanza da cui analizzare l’opera di De Maria.
“Per me, esiste una connessione molto forte tra l’interesse di Walter per la musica minimalista e l’Arte Minimal e Ambientale che ha creato. Ho sempre pensato che il suo lavoro fosse molto ritmico e basato sulla modularità. La sua arte e musica visiva: è come se alcune delle sue opere scultoree come The Lightning Field (1977) o The 2000 Sculptures (1992) fossero composte da una serie di note musicali trasformate in oggetti fisici posizionati nello spazio in modo tale che la loro ripetizione dilati il tempo”. The Lightning Field, la creazione più importante e nota di De Maria, ha difatti molto a che fare sia col concetto di tempo sia di spazio.
Terminata dopo diversi anni di lavoro (e tuttora allestita grazie alla Dia Art Foundation che la commissiono e al supporto di sponsor come Gagosian e Prada), consiste in 400 pali di acciaio inossidabile di altezza variabile tra gli 8 e i 4, 5 m, conficcati nel terreno a distanza regolare di circa 67 m uno dall’altro a formare un reticolo che copre 3 km2 di una porzione remota del deserto nel New Mexico. Una scultura ambientale che aderisce alla volontà, assai praticata tra anni Sessanta e Settanta, di liberare l’arte dalla dimensione mercantile delle gallerie. Un’opera diventata leggendaria forse anche perché sono relativamente pochi coloro che l’hanno visitata. Al Field, che dista quasi tre ore di macchina da Albuquerque, la città più popolosa dello Stato, sono infatti ammessi un massimo di sei visitatori alla volta, alla settimana, per pochi mesi l’anno; inoltre, la visita deve durare 24 ore durante le quali si pernotta in un bungalow costruito nei paraggi ed è vietato fare fotografie o riprese.
Ma chi ha che fare con l’arte, per professione o passione, non può non conoscerla perché è nei manuali di storia dell’arte come uno degli esempi più importanti di Land Art, ma anche perché i racconti orali e scritti di chi l’ha raggiunta hanno spesso toni da impresa epica. La sua aura e stata ulteriormente alimentata dalle più pubblicate tra le pochissime immagini ufficiali esistenti, ovvero quelle con una tempesta saettante in atto, che ribadiscono l’idea, già implicita nel titolo dell’opera, che l’installazione sia un amplificatore di fulmini (peraltro non così frequenti nella zona). In verità, questa è un’opera sul tempo cronologico, che gli anglosassoni definiscono time, e non su quello atmosferico – wheather in inglese.
...cercavano tele sempre più grandi, poi, con la prima foto della Terra scattata dalla Luna, prese corpo l’idea che il nostro pianeta fosse come un oggetto su cui disegnare e intervenire.
Un autorevole visitatore come Germano Celant ricostruiva il suo primo sopralluogo sul numero 606 di Domus del 1980: “La dimensione temporale e data dalla condizione espansa della realizzazione e della permanenza (…) questa dilatazione rende esplicita l’analogia, nella Land Art, tra quantità di spazio e quantità di tempo”. Spazio e tempo sono gli elementi cardine dell’“esperienza primaria”, come De Maria definiva l’azione di camminare intorno e dentro al reticolo di pali, nell’arco di una giornata, vedendoli comparire e sparire alla vista a seconda della prospettiva e dell’incidenza del sole sulle loro superfici metalliche. Look and walk e la modalità ritmica con cui i visitatori possono ancora oggi condividere il tentativo artistico di strutturare lo scorrere del tempo all’interno di un reticolo geometrico, praticamente un pentagramma, per dirla alla Aitken.
L’installazione rappresenta uno sforzo potente di “sovrapporre al fluire ininterrotto della natura uno schema di spazi delimitati” che, secondo la sociologa americana Camille Paglia, sarebbe il modus operandi di tutta l’arte occidentale. Maneggiare la vastità, se non proprio l’incommensurabile, è certamente stata un’ambizione degli earthworkers ‘storici’ come De Maria, che “cercavano tele sempre più grandi, poi, con la prima foto della Terra scattata dalla Luna, prese corpo l’idea che il nostro pianeta fosse come un oggetto su cui disegnare e intervenire” – un’altra preziosa testimonianza di Celant che da tutta la misura della mentalità di un periodo storico che certo non stigmatizzava la volontà di controllo e predominio sulla natura.
Doug Aitken, dal canto suo, sta formulando da anni quello che potremmo definire un aggiornamento della Land Art in armonia coi cambiamenti culturali e di sensibilità avvenuti dagli anni Settanta a oggi, passando da un atteggiamento antropocentrico verso uno più ecocentrico. La sua intenzione, che rientra nel tentativo collettivo di trovare nuovi equilibri nella relazione uomo-natura, si esprime attraverso una produzione artistica “capace di creare sistemi viventi che potessero trasformarsi nel corso del tempo”, come precisa l’artista stesso il quale, a proposito della sua (dis)continuità coi pionieri della Land Art, dice: “Da Nancy Holt a Robert Smithson o Michael Heizer erano tutti individui con delle visioni molto personali ed epiche.
Io sono sempre stato interessato al loro lavoro, ma a volte mi sembrava monumentale e imponente. Io cercavo leggerezza e cambiamento, volevo fare opere che potessero diventare pulsazioni di esperienze, che divampassero fulgide per un breve periodo o che rappresentassero degli incontri fisici all’interno del paesaggio”. Obiettivo raggiunto, per esempio, con New Horizon (2019), meravigliosa mongolfiera specchiante che moltiplica i punti di vista sui paesaggi che sorvola, o con gli Underwater Pavilions (2016) una serie di sculture che Aitken poggia sul fondo degli oceani per suscitare consapevolezza sulla bellezza e la fragilità dell’ecosistema marino e ne diventano parte integrante in modo temporaneo – a differenza degli imperturbabili e inossidabili pali di De Maria.
O, ancora, The Garden (2017), un’oasi tropicale, ricreata al chiuso, che ospita un grande solido trasparente e sterile contenente archetipi di elementi d’arredo. Gli spettatori possono decidere se contemplare l’installazione dal di fuori o se attivarla entrando, uno alla volta, nella struttura dove sono liberi di distruggere tutto ciò che si trova al suo interno, senza peraltro scalfire la natura che li circonda. Una messa in scena dell’alienazione umana quando la comunicazione con la natura non esiste o viene interrotta. Il cambio di paradigma tra Land Art di ieri e di oggi appare lampante nel confronto tra due opere di De Maria e Aitken in particolare. Il primo, per la Documenta del 1977, conficco una barra d’ottone lunga 1.000 m nel sottosuolo della Friedrichsplatz di Kassel, in Germania, dove rimarrà per sempre;
The Vertical Earth Kilometer è una penetrazione simbolica della Madre Terra che trova la sua evoluzione nel decisamente meno testosteronico – anche nell’eliminazione dell’articolo determinativo Sonic Pavilion realizzato da Aitken trent’anni dopo nella foresta brasiliana, in cui i visitatori possibile ascoltare i suoni della Terra raccolti da una sonda che raggiunge i 200 m di profondità. Una sorta di macchina empatica che mette in comunicazione l’uomo e il pianeta, e che aveva affascinato il vecchio De Maria, come ricorda Aitken: “Piu tardi, dopo quel nostro primo incontro, quando la sua salute stava peggiorando, mi disse: ‘Doug, se in questo momento potessi andarmene da qualsiasi parte, viaggerei fino a Inhotim in Brasile per vedere il tuo Sonic Pavilion (2009) perché e l’opera che vorrei veramente sperimentare di persona’. Senza averlo visto, mi parlò dell’idea di come il Sonic Pavilion si introduca nella terra e di come crei uno soundscape vivente che cambia in continuazione a seconda del movimento del pianeta e delle sue placche geologiche.
“Credo che condividessimo un’attrazione per l’attivazione dell’arte con cui portare lo spettatore dentro un presente viscerale”. Come tutti gli artisti dotati di talento e visione, Walter De Maria e Doug Aitken hanno condiviso la consapevolezza estrema del tempo che scorre e, come tutti i grandi, hanno reagito nei due modi possibili: l’uno cercando di dare una forma delimitata, spesso monumentale, al flusso, e l’altro provando ad armonizzarsi con esso, come da secoli accade nella cultura orientale e come raccontato, per esempio, nel Libro d’ombra di Jun’ichirō Tanizaki (1933). Un libro che rappresenta il passaggio di testimone da De Maria ad Aitken avvenuto simbolicamente al termine di quel loro primo pranzo in un freddo pomeriggio newyorkese: “Dopo pranzo, ho dato a Walter una copia del libro, un trattato impressionante sulla vita ridotta all’essenza, sui piccoli schemi quotidiani e la pacata magia della vita di tutti i giorni”.
Caroline Corbetta (Milano, 1972) e curatrice d’arte contemporanea, autrice e giornalista culturale. Ha fondato e dirige il Crepaccio, vetrina espositiva aperta nel 2012 e diventata nel 2017 una kunsthalle digitale. Ha scritto per Domus, Vogue Italia, Ventiquattro (Il Sole 24 Ore), Rolling Stone e Mousse.
Immagine di apertura: Walter De Maria, The Lightning Field, 1977. Foto John Cliet - The Estate of Walter De Maria. Courtesy of the Dia Art Foundation, New York.