“Collocata nel punto in cui l’Allegheny e il Monongahela confluiscono a formare il fiume Ohio, Pittsburgh fu in origine un primitivo fortino fatto di tronchi. Per questo avamposto lottarono aspramente i francesi, le giubbe rosse inglesi e le truppe americane provenienti dalla Virginia. E tutti combattevano gli indiani: ci furono rivolte sanguinose, sentinelle che ispezionavano le vie d’acqua alla ricerca di canoe e descrivevano la morte. Ma nel 1800 quel luogo selvaggio era ormai addomesticato. Sorti a centinaia, gli insediamenti iniziarono a premere verso ovest; la frontiera arretrava verso l’Oregon. Da rozzo villaggio quale era, all’improvviso Pittsburgh diventò una città. I barconi da carico venivano spinti controcorrente mediante pertiche per facilitarne l’attracco ai moli, e nel 1843, quando furono costruite chiuse e dighe sul primo tratto del Monongahela, comparvero eleganti piroscafi a ruota che scivolavano lungo il fiume verso St. Louis, verso New Orleans e verso il mare. Poi arrivarono le chiatte. Fino agli anni cinquanta dell’Ottocento continuarono a trasportare le ricchezze che i minatori avevano strappato alla terra. Carbone, ferro, minerali, arenaria. Fu allora che la città fu presa da una violenta frenesia di crescita. Poi, negli anni sessanta dell’Ottocento, arrivò l’acciaio”.
W. Eugene Smith: “Ritrarre una città è un compito senza fine”
Da primitivo fortino di tronchi a città dell’acciaio: l’industriosa Pittsburgh secondo uno dei maestri indiscussi della fotografia è in mostra alla Fondazione MAST di Bologna.
View Article details
- Ilaria Bombelli
- 19 giugno 2018
- Bologna
Chi scrive queste righe è W. Eugene Smith, fotografo di genio, maestro indiscusso del saggio fotografico, dell’idea cioè che attraverso una sequenza di immagini di continuità narrativa, e non per via di un singolo seppur potente scatto, si possa giungere in modo più accurato a una rivelazione di verità. Smith padroneggiava la fotografia tanto quanto la scrittura. Le sue parole non restando mai sul piano dell’indicazione sommaria, riescono sempre a scuotere, a commuovere. Nel giro di un paragrafo qui riesce a creare la necessaria atmosfera emotivamente carica – tutto il gioco di fondo di una città in espansione, le sue premesse storiche, il suo capitale umano e geografico, ovvero il suo carattere concluso – attorno a quello che fu il suo più ambizioso e tormentato progetto (ad Ansel Adams ne parlò in termini di fallimento finale): “Pittsburgh” (1955-1957). Un progetto elefantesco, il cui senso è oggi onorato dalla mostra in corso fino al 16 settembre alla Fondazione MAST di Bologna, nato per accompagnare un resoconto dello storico Stefan Lorant e che avrebbe dovuto concludersi nell’arco di poche settimane, ma che invece durò per anni, che Smith finì per finanziare interamente e per il quale produsse qualcosa come 20.000 negativi e 2.000 stampe. La città lo prese completamente. “Un sogno concretissimo”, lo definiva. Sempre prossimo al tramonto e mai abbandonato.
La mostra alla Fondazione MAST è una suite di scene nude e crude. Nere come la pece.
W. Eugene Smith nasce nel 1918 a Wichita, Kansas. Gli anni della giovinezza sono drammaticamente segnati dal suicidio del padre. Studia fotografia alla Notre Dame University, in Indiana, ma presto la abbandona per trasferirsi a New York e diventare, prima, giornalista free-lance per l’agenzia Black Star (con cui inizia a lavorare per riviste illustrate come Time, Look, Life), e poi, dal 1944, corrispondente di guerra. Dal 1946 al ’54 realizza per Life gli splendidi saggi fotografici Country Doctor (1948), Life Without Germs (1949), Spanish Village (1950), Nurse Midwife (1951) e A Man of Mercy (1954). Accusato di eccessivo perfezionismo e mancate consegne, nel 1954 rompe in malo modo la rivista e con tutto il mondo della stampa illustrata. Si separa dalla moglie, lascia i quattro figli e la sua casa lungo l’Hudson e si trasferisce in quello che un tempo era il Flower District di Manhattan, sulla Avenue of the Americas, in un edificio in cui si suonava jazz a tutte le ore (del suo immenso archivio, che donerà poco prima di morire, nel 1978, al Center for Creative Photography di Tucson, in Arizona, si contano 4500 ore di registrazione su nastro di jazz session). Con il suo ultimo progetto, a cui lavorò dal 1971 al ’75, Smith ha documentato l’avvelenamento da mercurio avvenuto nel mare di Minamata, in Giappone (si ricorda la straordinaria fotografia, intitolata Pietà, di una madre che culla in una vasca di olio la figlia completamente paralizzata dalle esalazioni tossiche), portando l’attenzione mondiale su di una tragedia umana e un disastro ambientale di proporzioni epiche.
La mostra alla Fondazione MAST, intitolata “W. Eugene Smith: Pittsburgh. Ritratto di una città industriale”, è una suite di scene nude e crude. Nere come la pece. Si compone di 170 fotografie vintage, tutte datate 1955–1957, selezionate dal curatore Urs Stahel fra le 600 conservate al Carnegie Museum of Art di Pittsburgh. Smith non traccia con il gesso un cerchio per terra per metterci dentro una città e farne un’immagine da catalogo – di vacue definizioni stereotipate come erano in uso a quel tempo: “Il focolare della Nazione”, “L’arsenale della democrazia”, “La città fumante” – ma la avvicina a sé da molte parti, facendone un ritratto del profondo. C’è tutto uno spiegamento di situazioni e vedute e scorci tirati dalla vita quotidiana: le calme vie d’acqua del Monongahela o dell’Ohio solcate dalle chiatte, gli operai impiegati nelle fabbriche Heinz, i bambini seduti lungo i marciapiedi, le parrucchiere al lavoro nei grandi magazzini Kaufmann, gli sportelli della banca nazionale Mellon, i politici in consiglio. I binari del treno, la funicolare, il cimitero militare. Sono gli anni in cui Smith scriveva alla madre: “Sono calmo come una laguna addormentata, anche se questa, come me, potrebbe nascondere un vulcano sul punto di eruttare”. E così appare la sua Pittsburgh. Placidamente distesa in lunghe prospettive e brulicante come un formicaio. Il cui svelarsi lento trova il suo punto di forza nel non darsi mai come conclusa. “Ritrarre una città è un compito senza fine”.
- W. Eugene Smith. Pittsburgh, ritratto di una città industriale
- 16 maggio – 16 settembre 2018
- Urs Stahel
- Fondazione MAST
- via Speranza 42, Bologna