“Quando entro in un ambiente chiuso – che sia una chiesa, un centro commerciale o un semplice appartamento – sono emozionalmente toccato dalla sua qualità estetica (in senso lato), da un’atmosfera per quanto indeterminata e diffusa, ancor prima [...] di percepirne distintamente gli oggetti contenuti”, così scrive il filosofo Tonino Griffero dissertando di estetica. Ed è esattamente questa la sensazione che si prova una volta usciti dal tunnel che ci accompagna dentro alla mostra di Eva Kot’átková, curata da Roberta Tenconi all’HangarBicocca di Milano.
Eva Kot’átková a Milano: fuori dalle gabbie della realtà
Le opere all’HangarBicocca avvolgono i visitatori in un percorso onirico, che si conclude in un grande letto, cullati dalle voci dei bambini che raccontano i loro sogni.
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- Angela Maderna
- 01 marzo 2018
- Milano
Varcare la soglia tra il dentro e il fuori qui non è un’esperienza traumatica: veniamo invitati a percorrere il tunnel-esofago blu, sostare nello stomaco in qualità di spettatori di una prima opera video (in cui un gruppo di bambini si sottopone a una serie di esercizi già velati da un alone d’inquietudine), per poi re-infilarci nel tunnel-intestino fino a sbucare nel sovraffollato mondo messo in scena dall’artista.
Durante questo percorso iniziatico, lasciamo indietro le immagini del fuori e ci predisponiamo alla ricezione del dentro. Una volta fuori dal tunnel, superato un primo brevissimo istante di disorientamento – dato forse anche da un allestimento che non sembra indicarci una via da seguire – quello che percepiamo è proprio questa “semi-cosa” che è l’atmosfera che sta tra noi e le opere e che, come spiega Griffero, viene irradiata dall’insieme inizialmente indefinito di ambiente e oggetti. Quella che aleggia in questa mostra è un’atmosfera cupa in cui la sensazione di angoscia viene confermata e amplificata ogni volta che si mette a fuoco una singola opera, avvicinandosi e scoprendo, per esempio, che le figure di bambini ritagliate e inserite nei Diary (libri dal formato ingigantito in cui vengono affastellate immagini ritagliate) hanno quasi sempre occhi o bocca chiusi da un filo di spago. Nel Diary no.1 (I-Animal) si trovano le interviste immaginarie fatte dall’artista ad animali costretti a vivere contro la loro natura, secondo dettami imposti dall’uomo.
Il dubbio che la costrizione per sua stessa azione si estenda anche all’essere umano, propagandosi attraverso l’organizzazione sociale, istituzionale e pedagogica, s’insinua fin da subito, per poi diventare dato certo e continuamente confermato ad esempio dal Diary no.2 (I-Machine) in cui sono raccolti una serie di verbi insoliti, ripresi da un lessico istituzionale o dalle bizzarre e a modo loro eleganti teste/gabbie disseminate all’interno della stanza (queste opere sono dette “Head” e rimandano a concetti come isteria, allucinazione, insonnia, schizofrenia ecc.) e dalle quali potremmo uscire semplicemente volendo perché sono tutte aperte.
Superato il primo impatto con l’atmosfera generale e l’impressione emotiva, uno sguardo storico-artistico rivela inoltre che questa ingigantita rappresentazione di noi stessi e del sistema occidentale di autocontrollo ha, sia sul piano formale, sia su quello concettuale, evidenti legami con le avanguardie storiche d’inizio Novecento, come il Dadaismo e il Surrealismo. Una rappresentazione che, come in un gioco di scatole cinesi, contiene a sua volta un teatrino di marionette, un altro mezzo per mettere in scena la vita attraverso la narrazione.
Passando poi da una riflessione storiografica a una dimensione più strettamente esperienziale, incontriamo (in realtà a fine percorso) un lavoro che in alcuni momenti viene attivato da un attore che invita il visitatore a salire sulla pedana per farsi tagliare i capelli e che tenendo tra le mani lunghe forbici racconta storie di cronaca, tra una spuntata e l’altra, risvegliando nell’avventore (in modo molto controllato) anche una latente preoccupazione per la propria incolumità. L’opera centrale, realizzata per questa occasione e che dà il titolo alla mostra però è The Dream Machine is Asleep, un sovradimensionato letto con cassettone che pare essere l’unica isola di libertà all’interno di questo marasma di coercizioni e controllo. Solo qui tutte le gabbie che ci siamo costruiti attorno sembrano svanire.
Una volta tolte le scarpe e infilati nel letto, è possibile sfuggire agli incubi della realtà per abbandonarsi ai sogni, ma non ai nostri, di adulti ormai irrigiditi e atrofizzati, indossate le cuffie, con la testa sul cuscino, possiamo ascoltare le voci dei bambini che raccontano i loro sogni. Chissà che non ci si riesca ad abbandonare a tal punto da addormentarsi e sognare a nostra volta, per rifuggire finalmente da tutte le gabbie fisiche e psichiche che ci siamo costruiti attorno, cominciando dal comportamento composto e vigile che ci autoimponiamo visitando una mostra.
- Eva Kot’átková The Dream Machine is Asleep
- Roberta Tenconi
- 15 febbraio – 22 luglio 2018
- HangarBicocca
- via Chiese 2, Milano