È per questo che nel suo offrirsi pubblicamente come una figura di un moderno sciamano (espressione che lui stesso usa frequentemente) piuttosto che come un artista figurativo, c’è una certa dose di verità. Quando incontra il pubblico di Hydra usa spesso la parola costellazione, quasi a voler dare un senso al sistema solare in miniatura che pende al centro della stanza in cui ha riunito i visitatori. Con altrettanta enfasi e frequenza parla di esperienza, iniziazione, stato mentale, combinazione, rituale, universo, intuizione, spirito, energia, forse anche per non deludere le aspettative di tutti quelli che già conoscono i suoi lavori precedenti.
Ma seppure nella difficoltà di cogliere fino in fondo il senso delle sue parole, e un’interpretazione univoca del suo lavoro, interpretazione alla quale l’artista volontariamente sfugge, l’opera di Pawel Althamer prende una direzione assai precisa. La partecipazione è uno dei suoi obiettivi principali: l’artista sa che, nel farsi veicolo dei sogni e delle insicurezze altrui, può attivare quel senso di comunità e condivisione che, come afferma lui stesso, può portare alla “guarigione”.
“Considero Oskar Hansen le radici della mia conoscenza e della mia educazione”, spiega Althamer. “Così come Grzegorz Kowalski, ex studente di Hansen, che fu mio insegnante. Devo a loro l’idea che comunicare è il modo più semplice e immediato per riconoscere un problema, anche il più serio dei problemi. Quando capisci quest’idea, e cominci a praticarla, allora puoi finalmente chiederti chi sei e cominciare a ‘giocare’ con il resto del mondo. In maniera del tutto naturale”.
Oskar Hansen (1922-2005) fu un architetto visionario e un insegnante modello per un’intera generazione di artisti della Polonia del Dopoguerra. Nel 1959 formulò l’idea della “forma aperta”, alla quale dedicò la sua intera vita e carriera. La “forma aperta” di Hansen è basata sul processo, l’interazione e la rottura della classica gerarchia artista-pubblico che spesso nega la soggettività dell’osservatore a favore dell’univocità dell’interpretazione, e dunque impedisce l’emergere di qualsiasi significato ambiguo. Per Hansen, la forma deve essere socialmente circoscritta e lo spazio il risultato delle attività umane che in definitiva lo costruiscono. L’attività umana diventa, nella prospettiva di Hansen, una “forma spaziale”.
E questo è proprio ciò che accade nell’opera di Pawel Althamer che, in maniera aprioristica, delude un’interpretazione univoca in favore di una costruzione collettiva dello spazio. Per “The Secret of the Phaistos Disc”, Althamer sceglie un elemento tipico della storia e della cultura ellenica, come simbolo della possibilità di costruire significati condivisi, e invita il pubblico a interagire con la forma. L’ambiguità del disco di Festo, che ancora non è stato decifrato, e i cui segni impressi sulla terracotta non corrispondono a quelli di ciascuna altra scrittura a oggi conosciuta, è funzionale a innescare quel processo di comunicazione e collaborazione che sempre Althamer insegue nei suoi lavori.
È chiaro, dunque, il perché nel vecchio mattatoio abbandonato sull’isola di Hydra, Althamer ancora una volta restituisce il visitatore alle sue radici primordiali, in un vortice di conoscenze che lo riportano a un’interpretazione “primitiva” della realtà e della sua stessa identità. Le quattro stanze della Slaughterhouse sono infatti luogo di esperienze comunemente condivise, che invitano lo spettatore a lasciare una traccia della sua presenza. L’artista allestisce un laboratorio dove mette a disposizione strumenti basilari: pennelli, colori, fogli. Nella sala adiacente è allestita una piccola biblioteca, dove ai misteriosi simboli iscritti sul disco di Festo, si sostituiscono i titoli di alcuni libri altrettanto misteriosi, quasi a dire che nella ricerca – e conoscenza – personale è nascosta la chiave di lettura dell’antico disco in terracotta.
“Ho imparato”, confessa Althamer, “mentre osservavo i miei figli giocare, che i bambini, soprattutto i più piccoli, sono straordinari insegnanti della “forma aperta”. E da qui ho avuto l’intuizione di realizzare dei burattini. Credo, molto spontaneamente, che abbandonarsi al rituale di giocare con queste bambole, possa ispiraci a ridisegnare il modo in cui consideriamo il mondo in cui viviamo. È un processo importante che nella sua semplicità ci permette di essere attori e, ridefinendo il ruolo di questi oggetti, di ripensare a chi siamo e che cosa vogliamo”.
Nella sua franchezza, dunque, Althamer riafferma se stesso e il suo lavoro come uno strumento di “iniziazione”, un pretesto per costruire una comunità di individui che interagendo e condividendo paure o aspirazioni, possono ritrovare se stessi e imparare a conoscere gli altri. “Dobbiamo guardare al lato pratico della nostra conoscenza”, prosegue Althamer, “per capire in quale modo alimentare e supportare questo processo di integrazione. Possiamo, collettivamente, attivare un potere, e, grazie a questa collettività, ispirarci a vicenda e riconoscere chi siamo”.
Nel caso di “The Secret of the Phaistos Disc”, i burattini sono la traduzione dei simboli iscritti nel disco di terracotta, elementi con i quali noi, come visitatori, possiamo interagire e così facendo cambiare il significato e le interpretazioni culturali di questo misterioso oggetto, e dare alla storia una nuova e diversa direzione.
23 giugno – 29 settembre 2014
Pawel Althamer: The secret of the Phaistos Disc
DESTE Foundation Project Space
Slaughterhouse, Hydra