Titolo e sottotitolo presentano già un enigma poiché il piedistallo, elemento funzionale all’esposizione dell’opera, è il simbolo di ogni presenza istituzionalizzata, metafora di potere, necessario rimando a un posizionamento spaziale gerarchizzato: c'è un sopra e un sotto dell'opera, una sintassi riconoscibile. Il piedistallo annuncia e prefigura tutto tranne la presenza di un'assenza, il fantasma appunto. Il piedistallo vuoto è un paradosso, quasi un ossimoro, l'eventuale negazione dello stesso principio espositivo: cosa mostrare se il contenuto stesso della mostra sembra essere il vuoto? O, meglio un fantasma? Quest’ultimo, questi ultimi (una carrellata che rievoca l'esattezza delle figure spettrali shakespeariane, dall’Amleto a Macbeth passando per Giulio Cesare) rimandano invece ai diversi regimi di visibilità tra est e ovest, ciò che sta al di qua e ciò che sta al di là del muro.
Come dichiara lo stesso curatore “per noi quello che c’era oltre la cortina di ferro era invisibile e così, al contrario, il nostro mondo era invisibile all’est, tanto che gli artisti più eversivi, quelli che lavoravano attraverso pratiche e temi invisi al regime, dovevano essere invisibili”. Nasce così, da quest’attenta riflessione, un bisogno: la messa a confronto di due generazioni d’artisti, quella che ha lavorato principalmente prima del crollo del muro di Berlino, invisibile, e quella che ha iniziato il proprio percorso artistico dopo il 1989, iper visibile, componente integrale di quella società debordiana di cui lo stesso Scotini si è occupato in modo magistrale attraverso importanti mostre – solo per citarne alcune, “Beautiful Banners: Representation, Democracy, Participation”, “Revolution Reloaded”, “Disobedience” – preziosi dispositivi in bilico tra engagement e descrittivo d’azione.
Queste opere fanno parte di uno dei due percorsi espositivi attraverso cui Scotini indirizza lo sguardo dello spettatore, L’archeologia delle cose, mentre ne Il teatro dei gesti compaiono note performance come quella di Marina Abramovic (fotografia della stella incisa sul ventre) o la serie d'interventi di Julius Koller che con la sua racchetta da ping-pong recupera un immaginario ben più esteso di quello dell’est Europa. Infatti più che di “Est Europa” sarebbe qui opportuno fare riferimento a un “percorso a est” inteso come cammino d’apprendimento, rifiuto totale di una dimensione occidentale individuale, annullamento del principio dialettico pubblico/privato che alimenta la nostra tradizione esperienziale, in favore di un principio di condivisione che facciamo, evidentemente, fatica a cogliere.
Così torna, spettro di tutta l'esposizione, il fantasma di Marx e del suo libro rosso, che ci accompagna lungo il percorso, infastidendo a volte, spaventando altre, divertendo perfino, sempre presente grazie a questa lettura inedita che Scotini ci offre. Una serie di sipari si aprono davanti al visitatore, come nell’accumulo di mobilio di Ilya & Emilia Kabakov o nel residuato d’appartamento di Petrit Halilaj che ci ricordano quanto l’universo sovietico fosse composto di familiare quotidianità. Tanto che è difficile non dare ragione a Derrida, quando scriveva a proposito del Manifesto del Partito Comunista “Je savais bien qu’un fantôme y attendait, et dès l'ouverture, dès le lever du Rideau”. Per chi voglia incontrarlo è consigliata la visita del “Piedistallo vuoto” e del catalogo che, se possibile, ne aumenta il già ricco ventaglio di significati. Elisa Poli – co-founder clustertheory.eu
Fino al 16 marzo 2014
Il piedistallo vuoto
Museo Civico Archeologico
via dell'Archiginnasio 2, Bologna