Si potrebbe scrivere una storia dell’architettura partendo solo da quegli edifici che non sono mai usciti “dalla carta”, dalla dimensione virtuale della rappresentazione.
Leggendari ma mai costruiti: 10 capolavori dell’architettura irrealizzata
Dal grattacielo di Gaudí per New York, alla Potsdamer Platz di Libeskind, abbiamo selezionato 10 progetti che, anche senza aver mai visto la luce del sole, hanno fatto la storia.
Immagine pubblicata su Domus, marzo 2014 © 2014 The Museum of Modern Art, New York. Foto Thomas Griesel
Domus 427, giugno 1965
Foto da Wikicommons
Foto da Domus 767, gennaio 1995
Foto da Wikipedia
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- Gerardo Semprebon
- 19 settembre 2024
Ci sono stati maestri del moderno, da Le Corbusier, a Mies van der Rohe a Frank Lloyd Wright che nell’architettura non realizzata, hanno mostrato i tratti più forti delle loro filosofie, traducendo movimenti artistici in fatti costruiti, sfidando in verticale le possibilità di una tecnologia in crescita incessante, reinterpretando in architetture nuove gli elementi del contesto.
Altre architetture invece non hanno convinto le giurie di altrettanti concorsi, ma hanno fatto la storia recente, anticipando temi contemporanei e ispirando progettisti: basta pensare alla spiazzante proposta di Adolf Loos per la sede del Chicago Tribune, al progetto per il complesso del Golden Lane di Peter e Alison Smithson, alla versione koolhaasiana del Parco della Villette a Parigi, all’originale proposta di Daniel Libeskind per Postdamer Platz dopo la caduta del Muro di Berlino.
Altri progetti ancora sono naufragati quando a cambiare idea è stato il soggetto promotore, o quando le circostanze si sono fatte tali che il progetto non è riuscito ad assorbirle, a livelli diversi di complessità e criticità. Tra questi troviamo il monumentale Foro Bonaparte pensato da Giovanni Antonio Antolini per Milano, o la visione per un grattacielo a Manhattan nata dalla mente di Antoni Gaudí, ma anche il centro di documentazione Topography of Terror di Peter Zumthor, arrivato ad una fase avanzata di cantiere prima di subire una repentina demolizione.
Queste architetture-in-potenza non sono arrivate al confronto con la realtà, ma esprimono molti elementi che ne aiutano una comprensione più profonda: articolano posizioni teoriche, danno spazio a provocazioni altrimenti incollocabili, aprono sfide progettuali prima inesplorate. Lasciano in ogni caso la testimonianza attiva di un pensiero: ne abbiamo selezionate 10, di cui ancora oggi moltissimi progettisti subiscono quel fascino di idea non (ancora) costruita.
La sua pianta è la copertina de L’architettura Moderna del Novecento di William J. R. Curtis, che la descrive come “una trama di linee (…) che sembravano espandersi gradualmente verso un implicito infinito, oppure condurre le viste lontane verso il cuore interno dell’edificio”. Icona di un’idea moderna di relazione con suolo e paesaggio, i suoi piani murari che si interrompevano solo per fare spazio ad aperture vetrate a tutta altezza. L’ispirazione è alla pittura neoplastica di Piet Mondrian e Theo van Doesburg, in una visione dell’architettura come opera d’arte; la sua pianta e la sua sezione risuoneranno poi visibilmente nel Padiglione di Barcellona del 1928.
Figlio di una fiducia nei tempi che circolava nel secondo dopoguerra, e di un desiderio di esplorare in architettura le nuove potenzialità della tecnologia, l’edificio doveva essere alto un miglio, circa 1.600 metri; Wright lo introduceva nel libro “Un testamento”, uscito nel 1957, sfidando altezze ancora oggi impensabili – quasi il doppio del primatista Burj Khalifa – mentre a Milano si costruivano la Torre Velasca e il Grattacielo Pirelli. Il problema delle oscillazioni dovute al vento sarebbe stato contrastato dalla morfologia a treppiede ma ad oggi non esistono prove di una sua fattibilità, così come dell’efficacia in circolazione e sicurezza dei 75 ascensori previsti.
L’ospedale di Venezia di Le Corbusier, sostanzialmente coevo del milanese Centro di calcolo elettronico per Olivetti, di cui condivide la sorte, è una pietra miliare nella storia dell’architettura moderna. Da una parte, reinterpreta in chiave contemporanea il tessuto costruito della Serenissima, con uno schema a cellule collegate ma potenzialmente indipendenti; dall’altra mette a punto un’originale soluzione per le unità di cura, con una sezione che fa entrare la luce zenitale, e dei paraventi a L per separare i letti. L’atteggiamento dell’architettura è diverso dai coevi Mies e Wright: è pragmatico, e si muove nell’ampio ma definito perimetro della fattibilità costruttiva. Dopo la morte di Le Corbusier nel 1965, il progetto passa nelle mani dello studio ma finisce in un nulla di fatto.
Al concorso per la nuova sede del secondo quotidiano per importanza negli Stati Uniti arrivano 260 proposte, tra cui la colonna gigante di Adolf Loos, l’autore di Ornamento e delitto”, che crea enorme, e lunghissimo, scalpore. C’è chi, come Manfredo Tafuri, ci ha visto una decontestualizzazione linguistica anticipatrice del Pop; chi invece ci ha visto una traslazione ironica dell’idea di colonna di giornale. Paradossalmente, però, questo elemento ornamentale fuori scala rivela una natura quasi spoglia per i canoni del tempo, e da allora non ha smesso di esercitare grande influenza su generazioni di architetti.
Il fotomontaggio della “street in the air” presentato tra i disegni per il concorso del nuovo complesso residenziale Golden Lane fa la storia dell’housing. Viene da un filone di pensiero che attraversa il Novecento: lo spazio distributivo del corridoio come spazio di socializzazione, pensato per usi collettivi come una strada sollevata da terra. Lo troviamo in moltissimi edifici residenziali, dal complesso di Brinkman a Spangen alla 8-house di BIG, passando per le rues intérieures di Le Corbusier. Spesso, tuttavia, questo sogno di una ibridare pubblico e privato tramite la sola architettura dell’edificio si è infranto con gli usi impropri che di simili spazi sono stati fatti.
Quello per il parco de La Villette di OMA è una proposta-manifesto che rende esplicito un metodo di lavoro. Specificità architettonica e programmatica indeterminatezza vanno di pari passo, dando vita ad un progetto che si risolve più nel processo che nella forma : è un progetto dove diversi lementi, le strips, i confetti – o punti su una griglia – la circolazione, sono tenuti insieme da un layer finale. Sono segni e trame che si sovrappongono sulla superficie del parco, concentrandosi in punti strategici che devono lavorare come condensatori sociali, magneti di una nuova “congestione orizzontale” che trova nell’eterogeneità delle forme e delle popolazioni urbane la principale fonte di nutrimento.
La matrice era un mosaico di frammenti di memoria, che non dovevano ricomporsi nelle tradizionali forme urbane, per reinterpretare la discontinuità in una città lacerata da atrocità belliche e politiche come Berlino. Una serie di linee, i “dieci fulmini di assoluta assenza” dal significato sia teorico che funzionale, si intersecavano diventando un canovaccio su cui far collidere nuovi volumi diversamente inclinati. Rem Koolhaas, in giuria al concorso per Potsdamer Platz, criticò la giuria stessa per il suo “massacro consapevole dell’intelligenza architettonica”, elogiando invece Libeskind per un progetto che “rappresentava un potente tentativo di re-immaginare l’idea stessa di centro, nonostante tutte le forze che ne avevano eroso il concetto”.
Si tratta dell’idea di una gigantesca piazza di 520 metri di diametro intorno al Castello Sforzesco, dove ospitare quello che potrebbe oggi chiamarsi un centro direzionale. Lungo il colonnato dorico doveva infatti trovare sede il nuovo governo repubblicano, con altri edifici per amministrazione e cittadinanza, dando forma riconoscibile al nuovo cuore pubblico di Milano, posto, non a caso su quell’asse del Sempione di collegamento tra Francia e via Emilia. Troppo radicale e costoso l’amministrazione francese finisce per accantonare il progetto, ma l’’idea tornerà ottant’anni dopo, con la costruzione della strada semicircolare fiancheggiata da palazzi signorili del Piano Beruto.
L’ Hotel Attraction era una proposta di Antoni Gaudí per un grattacielo a Lower Manhattan, New York City. Commissionato nel maggio 1908, avrebbe dovuto essere alto 360 metri. Tuttavia i dubbi circa l'effettiva realizzabilità del progetto hanno da sempre accompagnato i suoi famosi disegni. Poco si sa sulla sua origine e il progetto è rimasto sconosciuto fino al 1956, quando è apparso nei documenti di alcuni collaboratori di Gaudí. A testimonianza del fascino che quest'idea ha esercitato negli anni, i disegni per l'Hotel Attraction sono anche stati proposti come base per la ricostruzione di Ground Zero a Manhattan.
Il progetto di Zumthor per il nuovo centro di documentazione ed esposizione nel luogo dove sorgeva il quartier generale della Gestapo si aggiudica il primo premio nel concorso del 1993. È un lungo edificio scatolare che lascia volutamente una situazione urbana in sospeso, coprendo i resti dell’edificio delle SS e inserendoli in un nuovo sistema espositivo, con strutture ed elementi funzionali a vista, senza rivestimenti o ornamenti. Da subito il budget è insufficiente e il gruppo di storici incaricato delle narrazioni del passato vede il luogo più come un contenitore che un elemento storico in sé, chiedendo più allestimento; Zumthor immaginava invece di lasciare al visitatore una prima esperienza diretta dei luoghi teatro delle atrocità delle SS. Seguono ritardi, interruzioni, fallimenti, fino ad un nuovo concorso bandito dalla municipalità, che porta alla realizzazione dell’edificio attuale.