Come astronavi nella pampa: presenze a prima vista aliene ma al tempo stesso magnetiche e affascinanti. Appaiono così all’occhio del viaggiatore le decine e decine di architetture che l’italo-argentino Francisco Salamone ha realizzato in un arco di tempo relativamente breve (dal 1936 al 1940, meno di cinque anni) su un territorio esteso di oltre 300.000 chilometri quadrati nell’immensa provincia di Buenos Aires.
Nato a Leonforte, in Sicilia, nel 1897, emigrato con la famiglia in Argentina quando era ancora piccolissimo, Salamone studia all’Università Nazionale di Cordova e si laurea prima in architettura e poi in ingegneria. Negli anni Trenta, anche grazie a un rapporto di amicizia personale con il governatore della regione, ottiene la commessa per progettare e costruire decine e decine di edifici pubblici (più di settanta) che lo portano a misurarsi con i tipi architettonici più disparati: municipi, delegazioni comunali, macelli, cancelli cimiteriali, cancelli di parchi pubblici, scuole, mercati.
L’insieme della sua opera, realizzata in uno stile monumentale e con tecniche costruttive inedite, basate in gran parte sull’uso massiccio di cemento e calcestruzzo, costituisce uno dei lasciti architettonici più interessanti e meno conosciuti dell’Argentina contemporanea: a lungo trascurata se non addirittura dimenticata, la sua opera – che introduce la modernità architettonica anche nelle zone più arretrate del paese, nelle città rurali o nelle cittadine di frontiera, spesso lontane centinaia e centinaia di chilometri da Buenos Aires – è stata di recente riscoperta anche grazie a una mostra fotografica a cura di Enrico Fantoni che l’Istituto Italiano di Cultura di Buenos Aires ha ospitato nelle scorse settimane, intitolata per l’appunto “Astronaves en la pampa”.
Visitandola si scopre che grazie a un eclettismo e a un’energia davvero smisurata, Salamone ha curato personalmente ogni aspetto delle settanta opere realizzate nella pampa: dalla progettazione alla direzione tecnica, dal disegno alla scelta dei materiali, dall’arredo degli interni (dai battiporta al mobilio fino agli articoli per l’illuminazione ideati in centinaia di modelli) all’arredo urbano (panchine, lampioni, pavimentazioni, fontane, basamenti per pennoni, colonnati, architettura dei giardini).
A vederle oggi, queste costruzioni – molte delle quali hanno dismesso la funzione originaria – colpiscono per la monumentalità e l’arditezza, oltre che per lo slancio che trasmettono all’osservatore. A colpire, in quasi tutte, è la verticalità: che siano torri, obelischi o orologi, le architetture di Salamone svettano verso l’alto, quasi sfidando con la loro forma ardita la massiccia pesantezza del cemento armato con cui sono costruite, ma anche dialogando per contrasto con la piatta orizzontalità della pampa e del territorio circostante.
Si prendano ad esempio i macelli: Salamone ne ha costruiti 17 a partire da una specifica esigenza pratica, quella di poter svolgere un’attività fondamentale nell’economia novecentesca del paese come la macellazione del bestiame non più all’aperto e con metodi rudimentali, come avveniva in precedenza, ma al coperto e in condizioni igieniche più controllate. Quasi tutti oggi sono divenuti obsoleti e sono stati abbandonati, ma all’epoca presentavano soluzioni strutturali assolutamente innovative e formalmente audaci (il matadero di Guamini, ad esempio, visto di profilo presenta la forma rudimentale di un coltello a lama dentata puntato verso il cielo).
Una cosa analoga si può dire anche per tutti gli altri tipi con cui Salamone si è cimentato: il linguaggio adottato – forme geometriche, linee semplici e rette – consente alla maggior parte delle sue opere di essere ricondotte ai canoni dell’art déco. I profili metallici della carpenteria, le piastrelle calcaree monocromatiche, le piastrelle di granito, le ringhiere zincate, i pannelli in vitrolite e i rivestimenti ceramici e cementizi con varie inclusioni e l’uso di pigmenti, confermano la vicinanza di Salamone a questo stile. Ma non basta: quasi tutti i suoi edifici hanno anche una maestosità, un gigantismo, una tensione verso l’enorme in cui non si può non cogliere l’eco di certe tendenze monumentalistiche delle architetture nate in seno ai totalitarismi europei. Ma spostate in un altro contesto, sottratte allo spazio urbano e collocate nel vuoto dello spazio rurale, queste architetture finiscono per simboleggiare altro: forse, proprio l’arrivo della civiltà nelle pampas. Cioè, davvero, quasi l’irruzione di astronavi aliene.