Vista dall’alto, l’area a sud di Las Vegas è una piatta distesa di basse e anonime costruzioni industriali e residenziali in mezzo al deserto tagliata al centro da una lunga fila doppia di grandi edifici illuminati e diversamente belli, in mezzo ai quali scorre l’arteria più trafficata della città.
È il Las Vegas Boulevard South, più noto come la Strip, la celeberrima zona dei casinò protagonista di tanti film e soprattutto di un fortunato immaginario di matrice squisitamente statunitense.
Non propriamente il cardo senza decumano imposto al cinema dalle necessità scenografiche del genere Western, ma un archetipo urbanistico che ha comunque le sue radici nella tipica architettura vernacolare del Far West, dove la sottile linea concettuale tra frontiera e deserto è stata più volte attraversata dai pionieri che hanno trasformato la conquista dell’ignoto in una storia di successo, di cui Las Vegas è appunto uno dei casi più emblematici.
A lungo snobbata dal pensiero più accademico, l’architettura commerciale – in registro monumentale – di questa ex stazione di posta nel deserto minerario del Nevada diventata paradigma delle città capitaliste, è invece il fulcro di Learning From Las Vegas, il seminale saggio con cui nel 1972 Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour rivoluzionarono il modo in cui l’architettura guarda il mondo che le sta attorno, e quindi se stessa: non col purismo egotico di un modernismo di maniera, ma con un atteggiamento anti moralista, derivato dalla Pop Art, che tenesse conto del preesistente in modo non pregiudizievole.
È in questo senso che, per gli architetti statunitensi, Las Vegas assunse negli anni ’60 il ruolo che Roma – in fondo un altro modello, e molto più antico, di potere e denaro applicati – aveva avuto negli anni ’40, quando la riscoperta della piazza, altro grande archetipo, aveva innescato una serie di nuove riflessioni sul rapporto non solo tra vecchio e nuovo (o tra “vitruviano e volgare”) ma anche tra pubblico e privato, e soprattutto tra artistico e commerciale.
Ma se “Las Vegas sta alla Strip come Roma sta alla Piazza” è una delle dichiarazioni giustamente più conosciute del libro, è ormai il caso di capire quanto, in un epoca in cui imitazione e ibridazione hanno decretato la supremazia del prototipo sull’archetipo, la sua lezione è ancora valida.
A cinquant’anni di distanza, dunque, l’American Academy in Rome (dove Venturi passò due anni come borsista) ne tenta una rilettura con la mostra “From Las Vegas to Rome”, proponendo stavolta di guardare alla capitale dell’intrattenimento (e del “peccato”) per capire quella della religione, della cultura, dell’arte e dell’architettura classica. E lo fa affidandone l’ambizioso e complesso apparato iconografico al più noto e prolifico dei fotografi d’architettura contemporanei, Iwan Baan.
Mettendo stavolta a confronto le due città, non solo con la prospettiva a volo d’uccello (e spesso controluce) che è il suo marchio di fabbrica (e che pure era stata usata nel saggio del 1972) ma anche con i campi stretti e i dettagli che ogni studio comparativo esige, il fotografo olandese sottolinea con ironia e leggerezza i cortocircuiti di senso, anche se non sempre di scala, innescati dalle loro similitudini. E nella confusione tra scenografia e significato, tra medium e messaggio, lo stupore panoramico disincantato delle sue foto suggella ancora oggi una felice intuizione di mezzo secolo fa.
- Titolo:
- From Las Vegas to Rome: Photographs by Iwan Baan
- Date della mostra:
- Dal 6 ottobre al 27 novembre 2022
- A cura di:
- Lindsay Harris
- Sede:
- AAR Gallery, American Academy in Rome
- Indirizzo:
- McKim, Mead & White Building, Via Angelo Masina 5, Roma, Italia