Il più grande regista-architetto in attività, Wes Anderson, sta allargando la sua voglia di progettare, disegnare, arredare e fondare mondi. L’ha sempre fatto, in tutti i film. I molti personaggi che animano le sue storie diluiscono la concentrazione che ci sarebbe se in gioco ci fossero solo 2 o 3 caratteri, finendo così per mettere in risalto ciò che li accomuna. La casa di I Tenenbaum, la nave di Steve Zissou, i tunnel sotterranei di Fantastic Mr. Fox o i vagoni del Treno per il Darjeeling sono alcuni esempi, ristretti. Poi i film si sono fatti più grandi. Un intero hotel o ancora un’isola di cani. Adesso per The French Dispatch una città.
Il film architettonicamente più ambizioso di Wes Anderson, forse il suo peggiore
Con The French Dispatch, Wes Anderson esagera e costruisce una intera città, francesce nello stile e americana nel decor, completamente di fantasia. Ma come si suol dire, alle volte il troppo stroppia.
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- Gabriele Niola
- 15 novembre 2021
Si chiama Ennui-Sur-Blasé e non esiste, l’ha potuta creare da zero Wes Anderson per il suo piacere. Le riprese sono state fatte più che altro ad Angouleme ma poco importa, è solo una base per costruire un proprio mondo di finzione in cui una rivista simile al New Yorker (chiamata per l’appunto The French Dispatch) chiude per la morte del suo direttore e così ripercorriamo gli articoli del suo ultimo numero. Un film a episodi sostanzialmente, che diluisce ancora di più le storie e consente a Wes Anderson di non doverle approfondire ma poterle accennare. Il massimo della concentrazione quindi è sugli ambienti. Ogni storia un posto di Ennui-Sur-Blasé diverso, a partire dalla prima che esplora la città in bicicletta e così ce la racconta. È la punta di perversione: toccare tutto velocemente, passare di ambiente in ambiente disegnarne o immaginarne il maggior numero possibile. Anche all’esterno!
I film Marvel fanno sempre quello che si chiama “world building”, cioè oltre a tracciare una storia badano sempre a raccontare anche un mondo e i suoi funzionamenti di fantasia, così che sia possibile realizzare altri film tutti collegati dal fatto di rispettare le regole di quel mondo e dal condividere luoghi o personaggi di quel mondo. Ma è solo un’espressione “world building”, è una metafora. Wes Anderson invece li costruisce proprio i suoi micro-mondi, lavora di scenografie vere e finte, di plastici e ricostruzioni, di tappezzeria, costumi, colori e arredamento per mettere insieme ambienti che parlino per le persone che li abitano. La prima immagine che ci è arrivata di The French Dispatch (ormai due anni fa) non diceva niente narrativamente, erano alcuni dei più famosi attori hollywoodiani immobili mentre guardano avanti. Non era per niente evocativa, non conteneva lo spunto per una storia. A parlare era il posto in cui stavano (una redazione anni ‘70), i vestiti che indossavano, gli oggetti che maneggiavano.
Era quello il primo assaggio di un ulteriore passo in avanti in un film che non sarà mai uno dei migliori di Anderson (anzi, forse è il meno a fuoco, il più ridondante, lungo e noioso) ma di certo allarga lo spettro del costruibile e la sua ambizione. Tutto il primo segmento in cui ci viene raccontata la città inesistente è una maniera di assemblare insieme posti e luoghi per dare l’impressione di un luogo coerente e di fatto mettere sullo schermo la prima “città da Wes Anderson” mai vista. Francese nei colori e nello stile, americana anni ‘70 nel decor, quieta nel ritmo e discreta nell’apparenza. All’interno di quel mondo si muoveranno le altre storie e sempre di più l’impressione sarà che il punto non sono le trame ma la costruzione degli ambienti che le ospitano. Sempre di più l’impressione sarà che il piacere di Wes Anderson non sia nel filmare qualcosa, ma nel progettare luoghi e ambienti e poi guardarli funzionare, cioè guardare come i personaggi muovendosi dentro di essi stabiliscono rapporti o danno vita a fatti e situazioni, influenzati da quegli spazi.
Vediamo così l’auditorium di Ennui-Sur-Blasé in cui un critico d’arte (Tilda Swinton) introduce una mostra su un fantastico artista che tuttavia è detenuto nelle carceri della città e lì vediamo sia la mostra sia la storia d’amore che questo derelitto e violento (Benicio Del Toro) stabilisce con la poliziotta che lo sorveglia (Lea Seydoux). È una presa in giro dell’esaltazione per l’arte istintiva ma anche un modo di lavorare sugli ambienti brutali delle carceri, di immaginarne una come una scuola privata, in cui la divisa dei carcerati sembra la divisa degli studenti e le regole possono essere piegate dalla malleabilità degli ambienti polifunzionali. In un posto in cui la repressione può diventare installazione artistica o luogo d’esposizione, allora anche la carcerazione e l’isolamento possono sfociare nell’amore. La poliziotta sorveglia il detenuto nella sua cella ma quando sono in un altro posto, nell’ala del carcere adibita a spazio espositivo, posa nuda per lui. È un classico di Wes Anderson, il personaggio animalesco e la donna desiderosa che qui sono meno avvincenti che mai.
Nel secondo segmento una rivolta studentesca modellata su quelle francesi del Maggio del 1968 mette in luce un leader degli studenti (Timothée Chalamet) che finisce con stringere una storia d’amore con la reporter molto più grande di lui che sta scrivendo della sua rivolta (Frances McDormand). Vediamo una quantità impressionante di ambienti angusti in cui molti studenti funzionano come un plotone militare, iper-acculturati e sovra-sofisticati alla ricerca di un’età adulta tramite oggetti e feticci dell’epoca (come il protagonista di Rushmore). Anche un viaggio in moto (illuminato e inquadrato in modi eccezionali) sembra stare lì solo per il piacere di sistemare personaggi, inquadrarli, fotografarli e tenerli come arredo.
È il segmento più debole. Privo di un vero arco narrativo e davvero funzionale solo alla costruzione dei posti che mandano avanti la trama, finirà con una partita a scacchi reale (non metaforica) chiusa intellettuale a quella che doveva essere una rivolta materiale.
Infine chiudendo scatole dentro altre scatole come una matrioska, il racconto dell’ultimo articolo è un racconto a sua volta. Il critico gastronomico della rivista (Jeffrey Wright), intervistato in televisione, racconta quella che doveva essere la recensione della cena preparata dal cuoco della polizia diventata invece un articolo su un rapimento che sfocia in un inseguimento animato. Dove sono le cucine? Come comunicano con la sala da pranzo? Chi ci lavora? Com’è la logistica dei pasti? Le scene dirette da Wes Anderson sembrano il risultato di domande che si porrebbe un architetto nel progettare gli ambienti. Sembra che ciò che vuole spiegare, invece che i rapporti di forza tra personaggi, i loro desideri o ancora le loro aspirazioni, sia la logica con cui sono costruiti gli ambienti e poi sì piazzi lì ad ammirare il loro buon funzionamento.
E questo è il problema principale di un film che è la migliore versione renderizzata in 3D di un progetto mai vista. In cui ambienti di perfetta ricostruzione contengono sagome umane disegnate benissimo e ognuna cesellata con tratti visivi (capelli, abiti, mezzi di trasporto, accessori) che ne raccontano la personalità. E basta però. Come in un modello 3D non si muovono davvero, non vivono davvero, sono solo la promessa di quel che potrà accadere in quell’ambiente ancora immaginario.