“Architect and educator” è la formula che ormai accompagna quasi con ritualità la figura di Marina Tabassum, la progettista del Serpentine Pavilion 2025, a cui va il compito di celebrare il quarto di secolo del progetto installativo inaugurato nel 2000 da Zaha Hadid.
Nata a Dhaka nel 1969, Tabassum si è formata in Bangladesh ed è lì che ha iniziato la sua pratica professionale, prima fondando lo studio Urbana con Kashef Chowdhury – nel 1997 vincono il concorso per il monumento e il museo nazionale dell’indipendenza – e poi il suo studio, Mta, nel 2005.
Con lei si è sviluppata una figura che dà all’idea di “global architect” una definizione appartenente al ventunesimo secolo: non il vertice di uno studio che esporta un modello di architettura in tutto il mondo – come nel moderno – ma un practitioner che radica il suo lavoro di progettazione e di ricerca in una dimensione locale, confrontandosi con questioni sociali quali clima, contesto, cultura e storia, e poi mette in dialogo questo lavoro con quelli provenienti da altri luoghi.
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Questo scambio nasce dalla sua attività accademica – ha insegnato alla Harvard University Graduate School of Design e alla University of Toronto, insegna alla TU Delft e ha ricevuto un dottorato honoris causa dall’Università di Monaco – e dal suo lavoro di curatela ancora una volta inteso come ricerca: lo ha mostrato la sua Wisdom of the Land, il cortile bangladese creato in Arsenale per la Biennale di Venezia del 2018 a partire da un lavoro sviluppato con le comunità locali. E lo hanno confermato i numerosi premi ricevuti, oltre all’assegnazione della Serpentine; tra questi, l’Aga Khan Award for Architecture del 2016, o l’inserimento tra le 100 persone più influenti da parte di Time Magazine, come architetta più influente assieme a Lesley Lokko.
I suoi progetti hanno dato forma ad un linguaggio contemporaneo nato dalla consapevolezza del contesto come espressione culturale e ambientale: la moschea Bait Ur Rouf, vincitrice dell’Aga Khan, andava alla ricerca dell’essenza dell’Islam come spazio, al di là di mistiche e rituali; edifici residenziali e commerciali come la Comfort Reverie e la Ar Tower a Dhaka sono geometrie climate-responsive che cercano di contribuire al consolidamento del panorama della città; le case sopraelevate – che rispondono agli innalzamenti del livello delle acque sulle coste bangladesi – portate alla Triennale di Sharjah, o la capanna che porta la precarietà in mezzo al Vitra Campus di Weil am Rhein, sono progetti che nel loro girare il mondo, innescano riflessione.
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Quella di Tabassum, più che una pratica di costruzione ex novo, è un pratica che si inserisce nei processi, in una loro trasformazione che sappia rispondere alle emergenze contemporanee: l’inizio del nostro secolo deve essere una fase “RI-“, ha scritto durante la pandemia, in una lettera su Architectural Review indirizzata ai giovani architetti: “ripensare e rivalutare le nostre azioni, rivisitare, ricordare, ricercare e riconnettersi con le saggezze millenarie per riorientare, riavviare, rivedere i nostri modelli di vita riutilizzando, riducendo, riparando, riciclando, attraverso un processo di ritorno e resistenza per ristabilire l'equilibrio, per ri-assicurare la nostra stessa esistenza”.
Ripensare, prima ancora che produrre; processi e contesti, prima ancora che forme: sono tratti che possono riassumere molto dell’approccio di Tabassum, ma anche di una riflessione che in questi anni è in assoluto primo piano in architettura.
E può dirci anche molto del linguaggio che i diversi Serpentine Pavilions hanno parlato in questi 25 anni. Poche distanze possono essere così chiare quanto quella tra un 2000 dove la forma era tutto, fondamentale per esprimere un entusiasmo digital-futurista, e un 2025 dove la forma è passata sullo sfondo, e le azioni, i discorsi che questa forma deve contenere sono invece diventati tutto.
Immagine di apertura: Ritratto di Marina Tabassum © Asif Salman
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