L’architettura che abbiamo perso a Gaza

I bombardamenti hanno sfigurato il volto della Striscia. La stima dei danni è ancora in corso e riguardano anche edifici al patrimonio monumentale, spiega l’Unesco.

Dopo quindici mesi, il raggiungimento di una tregua tra Israele e Hamas ci invita a tirare le somme dei danni subiti dal territorio della Striscia a seguito dei bombardamenti israeliani. Il computo dell’impatto sul tessuto urbano può apparire contabilità bieca al cospetto del numero di vittime – all’incirca 46.000 secondo l’ultima rilevazione del Ministero della Salute di Hamas, una cifra sottostimata del 40% secondo uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Lancet – e del pesante tributo pagato da civili e bambini. Eppure, le conseguenze di ciò che molti intellettuali e giornalisti come Yousif al-Daffaie e Peter Harling hanno qualificato con il termine di “urbicidio” avranno un’influenza determinante per dettare i tempi e le risorse necessarie al ripristino delle condizioni minime di abitabilità della Striscia, a cominciare dalla funzionalità delle reti elettriche, idriche e fognarie, dell’operatività di edifici pubblici quali ospedali e scuole, nonché della disponibilità delle strutture di accoglienza. Ciò ben prima, dunque, di arrivare alla già agognata ricostruzione. 

Rispetto all’architettura civile, sarebbero il 66%, secondo Unosat, gli edifici residenziali distrutti o parzialmente danneggiati: un dato già etichettato con un neologismo, quello di domicidio.

Il patrimonio monumentale della Striscia, riflesso di un territorio che per millenni ha rappresentato un crocevia di civilizzazioni, oltre che un epicentro di scambio culturale e commerciale tra Egitto, Penisola Arabica e Medio Oriente, non è stato risparmiato dal combattimenti. L’Unesco, l’agenzia onusiana per l’educazione e la cultura, ha censito puntualmente i danni agli edifici storici. Nell’ultimo rapporto del 5 Dicembre 2024, sono 75 i siti distrutti o parzialmente distrutti, tra 6 monumenti, 48 edifici di interesse storico e artistico, 1 museo e 7 siti archeologici. Tra questi, spiccano il monastero del terzo secolo di Tell Umm Amer, la Moschea Al-Omari, di origine bizantina, o il forte mammelucco di Qalaat Barquq. Tra gli edifici moderni, si registrava già nel Novembre 2023 la distruzione del Parlamento di Gaza.

Immagine dal sito del Monastero di Tell Umm Amer (Sant'Ilarione). Courtesy Unesco

Quanto allo stato delle infrastrutture, i numeri forniti dalle principali agenzie delle Nazioni Unite, spesso ricavati dall’analisi di immagini satellitari di Unosat, il Centro Satellitare delle Nazioni Unite, sono necessariamente provvisori, e potranno essere precisati solamente a seguito di una verifica sul terreno. Un’operazione che non si prospetta facilissima: con il 68% dell’infrastruttura viaria integralmente o parzialmente distrutta – e il dato è ancora risalente al Settembre 2024 – e un numero imprecisato di ordigni inesplosi da disinnescare, anche il processo di valutazione indispensabile per l’elaborazione di un piano di ripresa si fa complesso. Lunghissima si profila quindi l’operazione di rimozione delle macerie, che Unep, il Programma Ambientale delle Nazioni Unite, ha stimato nel suo ultimo rapporto del Dicembre 2024 pari a oltre cinquanta milioni di tonnellate. Quanto tempo potrebbe volerci? Anche qui, molte valutazioni convergono parlando di almeno un decennio. Mentre c’è già chi, sempre all’interno delle Nazioni Unite, pensa già a come riciclare almeno parte di queste macerie o a come fornire, in mezzo a queste rovine, elettricità e acqua potabile attraverso soluzioni sostenibili off-grid.
 


Passando alla distruzione dell’architettura civile, sarebbero il 66%, sempre secondo Unosat, gli edifici residenziali distrutti o parzialmente danneggiati: un dato già etichettato con un neologismo, quello di domicidio. Significativo anche l’impatto sulle strutture industriali, colpite all’88%, e sui terreni agricoli, danneggiati per il 68%: un freno significativo per la rivitalizzazione di un’attività economica al collasso – fattore imprescindibile, a dispetto di quanto gli aiuti internazionali potranno essere generosi, per consentire agli abitanti di vivere nuovamente, anche in condizioni di fortuna, nelle abitazioni parzialmente danneggiate a cui faranno ritorno.

Un gruppo di palestinesi ispeziona le rovine della Torre Aklouk, distrutta dagli attacchi aerei israeliani a Gaza l'8 ottobre 2023. Foto da Wikimedia

Tra gli effetti della guerra non dovremmo dimenticare l’impatto nefasto delle emissioni di gas serra. Nei primi sei mesi di guerra, un rapporto elaborato da un consorzio di tre università, tra cui la University of London, aveva stimato in un intervallo tra 420.000 e 650.000 le tonnellate di anidride carbonica equivalente (tCO2e) prodotte dalle distruzioni, a cui si dovranno adesso aggiungere le emissioni per la ricostruzione. Un dato che è stato equiparato, a seconda delle fonti, alla produzione annuale di CO2 di diversi stati – ricordando oltretutto che le emissioni di gas serra prodotte dal settore militare sono sostanzialmente escluse dai vincoli dei trattati sul clima, e non vengono generalmente comunicate, ad eccezione della buona volontà dei singoli stati.

Gli architetti palestinesi, dal canto loro, spingono a ragione per un processo di pianificazione che non sia calato dall’alto dai paesi donatori, ma partecipato e sviluppato da forze ed energie palestinesi.

E la ricostruzione? È probabilmente troppo presto, alla luce delle difficoltà appena elencate, per presentare piani dettagliati che permettano di rendere tangibile un nuovo volto Striscia di Gaza – quella disegnata con l’intelligenza artificiale dal piano “From Crisis to Prosperity” elaborato dal gabinetto del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu nel maggio 2024 era, oltre che una Striscia riannessa sotto l’egida dello Stato ebraico, anche una Striscia immaginaria, meno densamente abitata, piena di spazi verdi e di infrastrutture e tecnologie all’avanguardia. Certo è che l’idea di ricostruire meglio Gaza – si legga alla voce inglese Build Back Better - è già discussa tra diplomazia e addetti ai lavori, che pronano per l’introduzione di fonti energetiche sostenibili e capillari, per l’utilizzo di un cemento a basse emissioni, o persino per il ripristino di tecniche di costruzione locali, come ad esempio la terra cruda. Quali saranno, del resto, i materiali ammessi dentro una Striscia sulla quale continuerà inevitabilmente il blocco di Israele ed Egitto? Sarà permesso l’ingresso dei cosiddetti materiali dual-use, quelli classificati tanto per uso civile che militare?

L'immagine generata dall'intelligenza artificiale dal piano “From Crisis to Prosperity” elaborato dal gabinetto del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu nel maggio 2024

Gli architetti palestinesi, dal canto loro, pronano a ragione per un processo di pianificazione che non sia calato dall’alto dai paesi donatori, ma partecipato e sviluppato da forze ed energie palestinesi. È quanto reclama il collettivo animato da architetti di Gaza, Cisgiordania e della diaspora Architects for Gaza, che in questi mesi ha offerto supporto educativo agli studenti di architettura senza più accesso ai propri corsi universitari. Un domani, le loro conoscenze potranno essere messe a servizio della popolazione alla ricerca di un riscatto dopo mesi passati in tende di fortuna. Immaginando che siano sempre gli studenti i mediatori ideali per allineare esigenze emerse dal basso con una volontà politica orientata ad una maggiore resilienza tanto dell’architettura che dell’economia della ricostruzione.

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