Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Domus 1058, giugno 2021.
“Una gabbia andò in cerca di un uccello”. Pur essendo una metafora delle complicanze della condizione moderna, l’enigmatico aforisma di Franz Kafka evoca una nuda fisicità, è un’immagine che si colloca nel mondo reale e materiale. Sovvertendo il tipico rapporto tra uccellino e gabbia, Kafka offre una dialettica carica di tensione tra contenuto e contenitore. Qui, la gabbia viene prima dell’uccello, ma l’implicazione è che l’uccello da trovare sia per quella specifica gabbia. Questo tira e molla descrive perfettamente la scala elicoidale progettata nel 1961 da Franco Albini e Franca Helg per il grande magazzino della Rinascente di piazza Fiume, a Roma. Spina dorsale della circolazione, capolavoro di geometria e costruzione, la scala lega in modo quasi paradossale una forma fluida alla rigida struttura che la sostiene. Il progetto per questo edificio condensa il gusto sobrio della borghesia industriale milanese (sia lo studio di Albini ed Helg sia la direzione della Rinascente avevano sede a Milano) con l’intreccio di condizioni e atmosfere civiche, letterali e figurative specifiche di Roma. La facciata, per esempio, uno schermo opaco e ondulato su un substrato metallico, ingloba struttura e sistemi meccanici, mentre nella sua forma a cornice e nel colore, abbinato al mattone delle vicine mura Aureliane, evoca frammenti del contesto storico.
Albini e Helg, qui, hanno calibrato le loro tendenze razionaliste verso l’astrazione per soddisfare un pubblico tipicamente romano. Si è prestata molta attenzione al modo in cui la facciata sa mediare le sfide morfologiche e costruttive, diventando la prova visivamente più immediata della specificità del sito, ma la risoluzione geometrica della scala offre una manifestazione più sottile delle stesse preoccupazioni. La scala della Rinascente fa riferimento a una serie di spirali precedenti progettate da Albini, molte delle quali mostrano un dialogo tra il nucleo e il suo supporto periferico. Kay Bea Jones ha descritto la tipica scala circolare di Albini come un “elegante artefatto che rivela la sua stessa coreografia”, contrapponendola opportunamente alla scala a “camera chiusa” del suo contemporaneo americano Louis Kahn (Suspending Modernity: The Architecture of Franco Albini, Routledge, New York 2014). Tra gli esempi più notevoli dell’opera di Albini c’è la Galleria di Palazzo Rosso a Genova, progettata poco prima de La Rinascente. Qui, l’armatura, pur presente, è meno in evidenza rispetto alla scala, che racchiude in un esercizio di leggerezza quasi irreale. L’esilità della struttura è correlata alla sua funzione tensiva, sembra un disegno a “filo di ferro” appeso. La relazione tra struttura e scala è intrinseca, ma sul piano visivo è meno importante, diventa quasi invisibile per mettere nel giusto risalto il movimento verticale. Con la Rinascente, tuttavia, abbiamo a che fare con una versione più complicata di questa relazione.
Anziché avere un elemento che domina l’altro, la spirale e quanto la circonda si presentano in una danza oscillante, ognuna rende l’altra reale. La pianta dell’intero edificio media le irregolarità del sito (o il contesto preesistente, per usare la terminologia razionalista) con la purezza volumetrica del prisma rettangolare ivi collocato. Il risultato di questa tensione è uno spazio di risulta: un vuoto all’angolo del progetto che ospita la principale scala pubblica. La particolare forma del perimetro del vuoto è definita dalla negoziazione del sito che, a sua volta, informa la configurazione in pianta della scala. Una spirale distorta, schiacciata da forze al di fuori della vista immediata. Tra il quadro normativo invisibile della città e la scala nel vuoto c’è ciò che possiamo chiamare gabbia: una disposizione reticolare di colonne e travi di acciaio, a volte celata, a volte chiaramente visibile. Questa presenza ambigua del reticolo nega la concezione magica di una scala senza struttura. In altre parole, la scala è sospesa, ma non fluttuante. La sospensione non è solo il prodotto della presenza visibile della struttura, ma anche della sua periodica interruzione della geometria continua della scala. Nella vista in pianta, il rapporto strettamente calibrato di archi che modellano la scala è evidente. Se, teoricamente, la forma ideale della spirale in pianta è un cerchio, in questo caso la versione distorta è una losanga simmetrica, ma ruotata, composta da archi più grandi lungo i lati che incontrano tangenzialmente archi più stretti alle estremità. Poiché i raggi degli archi più grandi si raccordano con quelli degli archi più piccoli, si verifica una transizione fluida tra le due serie, producendo un anello continuo, pur se leggermente eccentrico.
Anziché avere un elemento che domina l’altro, la spirale e quanto la circonda si presentano in una danza oscillante, ognuna rende l’altra reale.
Questo considerevole lavoro concertato per raggiungere la continuità in pianta potrebbe far pensare che ci sia stata una motivazione altrettanto coerente a guidare le decisioni di progettazione in alzato, ma in realtà non è stato così. Se vista dall’alto, guardando verticalmente il vuoto centrale in prospettiva, la spirale di Albini e Helg presenta un’innegabile somiglianza con la scala del Bramante di Giuseppe Momo ai Musei Vaticani, si coglie quanto quell’opera l’abbia influenzata. Quando invece la si guarda lateralmente e dal basso, un ritmo sincopato prende il sopravvento sul flusso naturale del vortice. Da questi punti di vista, si possono osservare le travi che sporgono orizzontalmente dalle colonne perimetrali collegando la scala ai pianerottoli, collegate a una coppia di longheroni a scatola che corrono lungo la parte inferiore dei gradini, seguendo il loro profilo dal piatto dei pianerottoli per un segmento di tre pedate e poi lungo la pendenza del tratto principale della scala.
Nonostante tutto il virtuosismo esibito nella complessa curvatura dei longheroni piegati, nessuno sforzo sembra essere stato speso per facilitare geometricamente le transizioni tra i segmenti. Il corrimano, anche se sottilmente smussato tra i diversi tratti, non fa che amplificare questa impressione di discontinuità. Il risultato, mentre l’occhio traccia i contorni frastagliati della spirale, è un effetto visivo vedo-non vedo. I disegni che accompagnano questo articolo rivelano queste qualità interrelate attraverso la convenzione della proiezione assonometrica obliqua. In queste vedute, la scala appare come una figura che si attorciglia all’interno dei confini della cornice contorta. Se però si toglie uno dei protagonisti dal disegno – la scala o la struttura – la costruzione cessa di avere senso. Pur sembrando complicata, la composizione complessiva è congruente. Scala e struttura, uccello e gabbia, sono mantenuti in uno stato di equilibrio.
Ajay Manthripragada Architetto americano, è nato a Vizag, in India, nel 1980. Ha fondato il proprio studio di progettazione in California nel 2014. Insegna architettura alla California Polytechnic State University, San Luis Obispo; in precedenza ha insegnato alla UC Berkeley e alla Rice University. Nel 2018 è stato nominato al premio Mies Crown Hall Americas come professionista emergente.
Immagine di apertura: la scala a spirale vista dall'alto. Foto Courtesy Fondazione Franco Albini