Un po’ a sorpresa in questi tempi di vacche magre, a Villa Olmo (Como), ha aperto i battenti la mostra “La Città Nuova. Oltre Sant’Elia” dedicata a un secolo di progetti visionari, nel senso che Henri Focillon ha dato a questo termine: i visionari infatti "ci aiutano a definire l’arte in quanto ossessione eroica, a vedere nell’immaginazione un potere di trasfigurazione, che cerca e crea spontaneamente la propria tecnica". Ed eroico è il caso del futurista Antonio Sant’Elia, morto da volontario in guerra a 28 anni, che dà opportunamente nome all’esposizione in quanto precursore non solo della rivoluzione architettonica novecentesca ma anche di tutto quel ricco microcosmo modernista comasco che ha visto dialogare in architettura e in pittura i vari Giuseppe Terragni, Cesare Cattaneo, Pietro Lingeri, Ico Parisi, Manlio Rho, Mario Radice, Carla Badiali e Carla Prina.
Vita nova dei precursori
"La città nuova. Oltre Sant'Elia" – una ricca mostra, curata da Marco De Michelis nella bella cornice di Villa Olmo a Como – presenta un secolo di progetti visionari. E suggerisce che, da circa quarant’anni, a coltivare un’urbanistica visionaria sono solo gli artisti.
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- Manuel Orazi
- 17 maggio 2013
- Como
L’esposizione però concede pochissimo al genius loci perché sono appunto i precursori a occupare il centro della scena. Giulio Carlo Argan, nel volume Dopo Sant’Elia pubblicato da Editoriale Domus nel 1935, notava che i precursori si differenziano dai maestri proprio perché “accennano e non svolgono”. Di conseguenza in mostra sono esposti soltanto progetti non realizzati anche nel caso di veri e propri maestri come Frank Lloyd Wright e Le Corbusier, presenti rispettivamente con il grande plastico di Broadacre City e con un nucleo significativo di disegni della città per tre milioni di abitanti. L’altro filo rosso che attraversa una mostra così eterogenea è il peso esercitato dall’arte sull’immaginario architettonico specie nella prima e ultima parte della mostra. Sant’Elia era l’unico architetto, salvo forse Chiattone, tra i pittori e poeti del Futurismo e i suoi disegni di città verticali totalmente prive di verde pubblico entrano in risonanza con quelli dei bozzetti di Erich Kettelhut per Metropolis di Fritz Lang del 1927, dopo la cui visione Luis Buñuel ebbe a dire solennemente che “il cinema sarà l’interprete più fedele dei più audaci sogni dell’architettura”.
Analogamente, la parte finale della mostra è costituita solo da artisti: dalla serie molto poco visionaria di case giocattolo Pizza City di Chris Burden, ai folli video tratti da Second Life di Cao Fei fino ai modellini in acrilico di città volanti di Carsten Höller, riprese dai progetti di Georgij Krukatov del 1928. Tra questi due poli si succedono invece alcuni campioni delle avanguardie e delle neoavanguardie novecentesche: Wright e Le Corbusier, come già detto, e poi lo splendido video restaurato Things to come (1936) di Laszlo Moholy-Nagy, la New Babylon di Constant, la Ville spatiale di Yona Friedman via via fino ai più celebri Archigram, Archizoom e Superstudio con i gruppi radicali fiorentini a occupare il salone d’onore dove vale il prezzo del biglietto la sola visione del contrasto fra la statua neoclassica di Nettuno stuccato in oro e i visori degli Archizoom in alluminio colorato del tipo dei vecchi flipper anni ’70. Non che tutto questo svariato eppure coeso gruppo di progetti, fra loro fortemente interrelati, (più alcune incursioni solitarie come la poco nota Intrapolis del pittore svizzero Walter Jonas o il plastico della City in the air del giovanissimo Arata Isozaki, quando era ancora metabolista) non sia immune da contaminazioni artistiche: Constant ad esempio era pur sempre un pittore, prima che un situazionista, Charles-Edouard Jeanneret nacque pittore prima di assumere il nome di Le Corbusier e persino Adolfo Natalini è considerato il più giovane esponente della scuola pittorica di Pistoia tanto per fare qualche esempio.
Il curatore, Marco De Michelis, vuole allora suggerirci qualcosa di più. Ormai da circa quarant’anni sono solo gli artisti a coltivare un’urbanistica visionaria mentre nella prima parte del secolo scorso gli architetti avevano avuto un ruolo trainante, sfilandosi gradualmente. È una tesi discutibile, ma netta, e che perciò offre una certa coerenza concettuale a tutta la mostra e smussa i contrasti, a volte apparenti a volte reali, tra i materiali originali esposti nelle stanze della villa progettata alla fine del Settecento da Simone Cantoni. Sarebbe stato molto più utile visitare la mostra non solo potendo leggere il catalogo (Silvana Editoriale, pp. 194, euro 28) che raccoglie contributi di storici di chiara fama come Jean-Louis Cohen, Mark Wigley o Roberto Gargiani mescolati a quelli di ricercatori più giovani come Anna Rosellini, Gabriele Mastrigli, Simon Sadler e altri ancora (fra cui anche il direttore di Domus), ma anche il libro che da anni — sicuramente troppi — De Michelis sta scrivendo per Phaidon sulle relazioni fra arte e architettura. Tanto più che lo storico veneziano, che a Como dirige peraltro la Fondazione Ratti, è esponente di spicco di quella scuola-non-scuola veneziana e tafuriana legata a doppio filo all’idea tradizionalmente contrapposta alla contaminazione fra le arti, l’Autonomia disciplinare. Resta comunque una mostra da visitare non solo per la difficoltà che abbiamo in Italia di vedere dal vivo tanti e preziosi materiali originali, ma anche per la piacevolezza della cornice espositiva: una villa sul lago, con un ameno giardino pubblico di fronte e il centro storico di Como a due passi. A riprova del fatto che in Italia tutto ciò che funziona e che accade di buono, accade di soppiatto e per lo più ai suoi margini.
“La Città Nuova. Oltre Sant’Elia. Cento anni di visioni urbane 1913-2013”
a cura di Marco De Michelis
fino al 14 luglio
Villa Olmo, Como