L'architetto polacco Przemyslaw Lukasik ha scelto di abitare con la famiglia in uno degli edifici dell'ex miniera Bolko a Bytom. Bytom è una città dell'Alta Slesia, nella Polonia meridionale. Da secoli territorio di miniere di carbone e di acciaierie, oggi per lo più inattive. Soltanto vent'anni fa il treno rallentava alla minima velocità attraversandola, fuori dai finestrini c'era un triste grigiore e una polvere nera che ricopriva tutto, dalle facciate degli edifici alle facce dei minatori e dei passanti. La Slesia di oggi sta cambiando, sta diventando una regione interessante sia dal punto di vista architettonico e culturale, sia da quello ecologico.
Dorota Koziara: Che cosa ha indotto un architetto ritornato in Polonia dopo anni trascorsi a Parigi a decidere di costruire proprio qui la propria casa?
Przemyslaw Lukasik: Abitavamo in un bilocale di un cosiddetto 'blocco', ci è nato un figlio: ero appena tornato da Parigi, dove avevo studiato e lavorato, tra l'altro con Jean Nouvel. Bytom per me era il posto giusto, e abbiamo creato un gruppo di persone che, pur operando in campi completamente diversi, ne vedevano il potenziale. Ora stiamo provando ad avviare il progetto "Made in Bytom": vogliamo mostrare lo stretto legame tra industria e cultura. Vogliamo toccare tutte le cose che ruotano intorno alla cultura industriale. A Bytom c'erano cinque miniere, che sono state chiuse.
Ne è rimasta qualcuna aperta?
Sì, ora soltanto una estrae carbone, ha il permesso fino alla fine del 2040. Da bambino passavo accanto a queste miniere, dov'era appeso fuori un grande segnale 'Vietato fotografare', erano i tempi del comunismo... Giravo intorno al muro, non sapevo cosa accadesse là dietro, gente che entrava, minatori che uscivano con le ciglia come incipriate. Tutti i miei amici erano figli di minatori. Quando giocavamo a pallone e c'era un cedimento e cadevano i camini dei palazzi, loro correvano a casa perché temevano per i loro padri, che stavano lavorando là sotto. Sono realtà che sento vicine, per questo vedo la Slesia in un modo un pochino diverso.
Ricordo tutto e per questo il mio giudizio su questa città non è obiettivo fino in fondo. Anche se cerco di mantenerlo il più possibile neutrale, non lo sarà mai, probabilmente. La decisione di rientrare il Polonia da Parigi, dove avevo lavorato in studi in cui molti ambivano di entrare, è stata una decisione del tutto consapevole. Iniziare un'attività in proprio significa assumersi la piena responsabilità di ciò che si fa. Come vedi, non siamo tornati da Parigi a Varsavia, dove il mercato è molto dinamico. Finora non abbiamo aperto neanche un ufficio a Varsavia, portiamo avanti qui un'attività localmente circoscritta. Al nostro ritorno, non abbiamo scelto di risiedere a Gliwice, più bella – anch'essa slesiana, ma più organizzata, ci sono università, ci sono molti studenti, ci sono più circoli, ristoranti – bensì nella mia Bytom. E non è la decisione di un qualche mega patriota, assolutamente no, benché io certamente lo sia, si tratta piuttosto di una reazione molto più inconscia, emotiva; non intendo neanche dire che non me ne andrò mai di qui, che amo questa città... le dichiarazioni non mi interessano.
Che funzione aveva prima questo edificio?
Era la lampisteria: nel punto in cui attualmente si trova la cucina c'erano gli scaffali per le lanterne. I minatori, che uscivano poi da questo edificio lungo un corridoio, entravano dopo avere indossato la tenuta da lavoro, prendevano le lampade e ciascuno lasciava la cosiddetta 'marca', una targhetta con un numero da 1 a 2.000 (perché c'erano appunto duemila dipendenti) e, quando usciva dalla miniera, rimetteva a posto la lampada. La lanterna appesa segnalava che il minatore era tornato dal sottosuolo. Noi stiamo appollaiati a 8,5 metri da terra a causa dell'idea razionalizzatrice di uno degli ingegneri della miniera, che intendeva facilitare così la circolazione interna. Grazie a questa soluzione i minatori non dovevano scendere da prima per le scale, poi salire fino al pozzo per essere infine calati in fondo alla miniera; in questo modo, inoltre, erano protetti dalle condizioni atmosferiche e avevano un accesso sicuro al pozzo, lungo il quale scendevano a 60 metri sotto terra. La decisione di fare qui la nostra casa è stata del tutto casuale: un giorno sono arrivato in questi dintorni, nel deposito che si vede dalla finestra, alla ricerca di materiali per un plastico, per esempio un pezzetto di lamiera. E soltanto allora ho notato questo edificio. Non lo avevo mai preso in considerazione prima. Ho colto un'opportunità che era anche un paradosso, perché l'edificio si trova a 8,5 metri da terra, cosa che è insieme spettacolare e problematica. Che l'edificio non fosse in quel momento dotato di accesso, non avesse più l'indispensabile rampa di scale, lo rendeva accessibile... alle mie tasche. Le scale che abbiamo adesso le ho recuperate da un'altra costruzione, non ho neanche fatto il progetto, si tratta di puro recycling. Al momento della compravendita il proprietario mi disse di avere il permesso di demolire l'edificio con la dinamite poiché era tutto in cemento armato. Per lui era un problema, perché chi avrebbe mai voluto abitare in un edificio del genere? Quando arrivai in comune e dissi che volevo adattare l'edificio ad abitazione, tutti gli impiegati mi presero per matto. Ma oggi lo inseriscono nel calendario della città di Bytom.
Vedevo passando le varie miniere, i vari pozzi, senza il minimo presentimento che questo sarebbe potuto essere un giorno casa mia. La scintilla è scattata mentre cercavo un banale pezzo di lamiera. Ho colto un'opportunità, che era anche un paradosso, perché l'edificio si trova a 8,5 metri da terra, cosa che è insieme spettacolare e problematica. Che l'edificio non fosse in quel momento dotato di accesso, non avesse più l'indispensabile rampa di scale, lo rendeva accessibile... alle mie tasche. Le scale che abbiamo adesso le ho recuperate da un'altra costruzione, non ho neanche fatto il progetto, si tratta di puro recycling. Per il fatto che non aveva accesso, il proprieario del terreno lo voleva demolire. Al momento della compravendita mi disse di avere il permesso di demolirlo con la dinamite poiché era tutto in cemento armato. Per lui era un problema, perché chi avrebbe mai voluto abitare in un edificio del genere? Quando arrivai in comune e dissi che volevo adattare l'edificio ad abitazione, tutti gli impiegati mi presero per matto. Ma oggi lo inseriscono nel calendario della città di Bytom.
Questa casa ha fondamenti molto solidi e tu hai accennato che sotto...
Da quel che raccontano i minatori pare che sotto ci sia un rifugio sotterraneo, ma non lo ho ancora scoperto, ho intenzione di farlo. I lavori connessi con questo edificio sono sempre aperti. Abito qui da molto tempo, ormai, ma faccio continuamente qualche trasformazione. Amo i cambiamenti.
Abbiamo mantenuto tutto ciò che era possibile, perché questo è per me essenziale: trasferirsi in un loft cancellando le tracce del passato è a mio parere assurdo.
Parlavi molto prima della comunicazione e di quanto essa sia importante. Raramente poi forse ciò viene realizzato a casa propria, ma vedo nel vostro loft molti elementi di comunicazione visiva, di grafica.
Sono affascinato da questo aspetto, perché, certo, sono architetto, ma mi ha sempre interessato tutto ciò che accade nei dintorni dell'architettura, quindi anche la grafica. Ho provato ad appendere qui quadri o fotografie, ma alla fine ci siamo limitati appunto alla grafica informativa per interni. Quello che si vede qui sono delle parafrasi, vecchi slogan usati nella Repubblica Popolare, del tipo "Sii prudente nel lavoro", "Bolko sempre con il partito". È una mia interpretazione grafica, ovviamente, ma ci sono anche indicazioni dirette, chi cerca il bagno, per esempio, vada al 3.
Sto lavorando a un grosso progetto nel centro di Bytom. Il progetto riguarda un frammento del programma di rivitalizzazione della città, lo stiamo mettendo a punto in collaborazione con l'artista francese Jean-Paul Ganem, che si occupa di land art e che lavorerà insieme all'ecologo Pierre Lussier, con il quale ha creato l'organizzazione Jour de la Terre, attiva a Montreal. In un secondo momento si è aggregato il celebre studio newyorkese Diller Scofidio.
Questi progetti non riguardano solo Bytom, vero? Hai detto di avere mostrato vari siti...
I siti e le realtà che richiedono una rivitalizzazione, una riabilitazione, sono moltissimi. Oltre ai terreni significativi dal punto di vista della città o di un suo quartiere, infatti, esistono degli immobili singoli, come questo, che non possono essere definiti oggetti di rivitalizzazione: si tratta qui piuttosto di riabilitazione di uno di questi immobili, è solo una goccia nel mare, ma riesce a cambiare l'aspetto dell'ambiente intorno.
Ho tutti sotto controllo, ma è una filosofia di vita e, visto che abito qui con la mia famiglia, deve essere una filosofia accettata dal resto della famiglia. I bambini giocano, i loro amici vengono a trovarli, il disegno che ti ho mostrato è probabilmente un po' diverso da ciò che disegnano gli altri bambini della scuola materna o che disegnavo io quando andavo all'asilo infantile. Disegnavo probabilmente le stesse case che disegnavano gli altri miei compagni. Una casetta a due spioventi con il camino e la siepe intorno. Qui c'è un lieve cambiamento. Ma è una filosofia, per funzionare deve essere assimilata e compresa, deve diventare familiare. A mio avviso abitare in un loft non va bene per tutti, cosa che certi developer immobiliari non comprendono. È difficile fare esperimenti con i clienti – e noi tentiamo di sperimentare non con i clienti, ma con l'architettura, con lo spazio; ed è difficile sperimentare o persuadere chi investe a sperimentare, se non si è collaudato prima l'esperimento su se stessi. Un collaudo del genere l'ho fatto in prima persona in questa casa, ma lo avevo già varato in precedenza con il mio studio. Abbiamo a che fare con il budget della gente, non importa l'entità, anche una casetta monofamiliare richiede somme considerevoli, accantonate per anni, o prese in prestito e, non fosse che per questo motivo, dobbiamo essere sinceri con queste persone, non possiamo creare delle favole che non capiscono. Si tratta di buon senso. Diversa è la situazione con i grandi capitali, con le grandi società che hanno ovviamente altri fini, ma anche con loro occorre parlare onestamente: la nostra professione richiede una responsabilità che si esprime anche nell'essere autentico e comunicativo, altrimenti il progetto non può funzionare.
Per tornare alla comunicazione, avete un ottimo sito internet, vi presentate con grande efficacia.
Penso che sia nella vita privata, sia nel lavoro ci voglia un po' di senso dell'umorismo. Considero come miglior risultato conseguito dal nostro studio innanzi tutto i rapporti con i nostri collaboratori: non dico che lavorano per me, ma che collaborano con me, non c'è un maestro e un discepolo, ma collaboratori. Anche per questo nel nome dello studio la parola Meduza è seguita da Group, e non è per caso, è stato un modo subconscio e, insieme, conscio per definire la cosa. La cosa più importante è che andare al lavoro non si associ soltanto allo stress, alla routine, alla noia, almeno è quello che vorrei.
Non posso imporre il mio modo di vedere, sarebbe pericoloso. Trasferirmi in questo posto è un tentativo di dimostrare che si può fare altrimenti. Che, invece di costruire un nuovo edificio, puoi sceglierti un immobile già esistente, abbandonato e in qualche modo trasformarlo—è un processo che fino a non molto tempo fa qui era inesistente, o meglio rifiutato. Ancora oggi, gran parte della gente qui pensa che la cosa migliore sarebbe demolire tutto, mentre a noi sembra di no, che questo è la loro e la nostra cultura. So per certo che l'architetto e l'urbanista non cambieranno tutto questo da soli. È necessario un lavoro comune, disciplinato e organizzato di ambienti differenti—e questo è un processo lento. Dorota Koziara, Architetto