Ambienti di lavoro e serendipità

Una panoramica sull’evoluzione degli spazi lavorativi, su come le persone siano davvero creative negli ambienti disordinati e caotici, che hanno facoltà di personalizzare.

Nel 1923 Le Corbusier, padre dell’ar­chitettura moderna, fu incaricato da un industriale francese di progettare delle abitazioni per gli operai della sua fabbrica presso Bordeaux. Le Corbusier rispose, debitamente, con alcuni fabbricati di calcestruzzo vivacemente colorati di puro carat­tere modernista. Ma gli umili operai avevano le loro idee: aggiunsero im­poste rustiche, tetti a falde e giardini chiusi da steccati decorati dai relati­vi nanetti. Le aziende non commissionano più alle archistar il progetto delle abita­zioni dei dipendenti. Gli architetti vengono piuttosto messi al lavoro per realizzare spazi per uffici che valga­no un servizio su una rivista, da Tho­mas Heatherwick (Google) a Norman Foster (Apple). Antesignana fu la Chiat\Day, una raffinatissima agenzia pubblicitaria che nel 1993 commis­sionò alla giocosità dell’architetto italiano Gaetano Pesce la sua sede di New York (murali sensuali, pavimen­ti luminosi, sedie montate su molle). La sede di Los Angeles venne proget­tata da Frank Gehry, che Jay Chiat, a capo della Chiat\Day, aveva notato prima che diventasse il più celebre architetto del mondo.

Ambienti di lavoro e serendipità Tim Harford , Che casino!  

Foto Matt Stuart

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Foto Andre Thijssen

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Foto Matt Stuart

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Foto Andre Thijssen

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Foto Matt Stuart

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Foto PutPut

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Jay Chiat credeva fermamente che il progetto fosse cosa da professioni­sti. “Date ai dipendenti il controllo del loro spazio e loro non faranno che scombinare la concezione di Frank Gehry”, potrebbe essere una parafrasi del suo pensiero. Perciò Chiat decretò che i dipendenti avessero dei minuscoli contenitori per “le foto del loro cane e cose così”. Il più famoso architetto aziendale non era affatto architetto: lo scomparso Steve Jobs, a capo di Apple, possedeva gran parte della casa di produzione cinematografica Pixar e lasciò ovunque nella sede della società il segno del suo gusto. Jobs si occupò dei particolari più minuti, scegliendo un’acciaieria dell’Arkansas che produceva acciai della sfumatura perfetta. Jobs pensava che un edificio influenzasse il modo in cui le persone interagiscono e decise che la Pixar avrebbe avuto soltanto due bagni, accanto all’atrio principale. In tutta l’azienda c’era un unico luogo dove andare a urinare e, quindi, si sareb­bero stabiliti nuovi rapporti in modo casuale. Ma se questi sforzi in fondo non facessero che ripetere l’errore di Le Corbusier? Se l’ufficio ideale non fosse quello più à la page o il più este­ticamente fantasioso? Se l’ufficio ideale fosse quello – foto dei cani, nanetti e quant’altro – che chi ci lavora si fa da sé? Nel 2010 due psicologi condussero un esperimen­to per mettere alla prova questa idea.

l più famoso architetto aziendale non era affatto architetto: lo scomparso Steve Jobs, a capo di Apple, possedeva gran parte della casa di produzione cinematografica Pixar e lasciò ovunque nella sede della società il segno del suo gusto.

Alex Haslam e Craig Knight allesti­rono dei semplici spazi per uffici do­ve chiesero ai soggetti scelti di tra­scorrere un’ora svolgendo attività amministrative. Haslam e Knight volevano capire quale tipo di spazio d’ufficio rendeva le persone produt­tive e soddisfatte, e provarono quattro differenti soluzioni. Due di queste soluzioni erano con­suete: una era spoglia – scrivania vuota, sedia girevole, carta, matita e nient’altro; l’altra era ammorbidita da piante in vaso e gradevoli foto di fiori ripresi in primissimo piano. Qui gli impiegati lavoravano di più e meglio, ed erano più a loro agio. Nel­la terza e nella quarta soluzione gli impiegati avevano la facoltà di deco­rare lo spazio con piante e immagini prima d’iniziare a lavorare. Ma nella quarta uno sperimentatore si presen­tava dopo che il soggetto aveva finito di sistemare il suo spazio e lo risiste­mava, togliendo all’impiegato la sua facoltà d’intervento. Quando gli impiegati avevano la possibilità di progettare il proprio spazio si divertivano e lavoravano di più e con attenzione, con una produ­zione superiore del 30 per cento ri­spetto a quella dell’ufficio minimali­sta e del 15 per cento rispetto a quella dell’ufficio decorato.

Fitting, photo PutPut

Quando gli im­piegati venivano deliberatamente privati della loro facoltà, il lavoro ne soffriva e ovviamente lo detestavano. “Ti avrei menato”, ammise più tardi un partecipante rivolgendosi allo sperimentatore. Quel che conta è il controllo, non l’estetica. Basta chie­dere ai veterani del MIT. Molti indicheranno come spazio preferito un edificio progettato in un pomeriggio e costruito per durare solo un paio d’anni. L’Edificio 20 con­sisteva in 20.000 mq di compensato e blocchi di cemento e amianto: un polveroso ambiente abusivo, privo di qualunque misura di sicurezza, pen­sato in origine per accogliere un pro­getto di ricerca sul radar degli anni di guerra, che però tirò avanti come ambiente di fortuna del MIT fino al 1998. L’Edificio 20 era un caos fertile. I successi iniziarono con il RadLab del tempo di guerra, da cui uscirono nove premi Nobel e i sistemi radar che vinsero la Seconda guerra mondiale. Ma i risultati continuarono per ol­tre mezzo secolo. Il primo orologio atomico commerciale; uno dei pri­missimi acceleratori di particelle; le famose fotografie ad alta velocità Harold Edgerton con il proiettile che passa attraverso una mela; l’hacking e il primo videogioco da sala, Spacewar; le prime società tecnologiche DEC, BBN e Bose. Nell’Edificio 20 le scienze cogniti­ve subirono una rivoluzione a opera del ricercatore Jerry Lettvin, mentre Noam Chomsky faceva altrettanto per la linguistica.

Quando gli im­piegati venivano deliberatamente privati della loro facoltà, il lavoro ne soffriva e ovviamente lo detestavano.

Tutto ciò accadde nel più povero, squallido spazio che il MIT potesse offrire. Tubi dell’acqua e cablaggi erano a vista e correvano su mensole attraverso i soffitti: faci­li alla manutenzione e alla riparazio­ne. Il che era un risultato non della progettazione, ma della trascuratez­za. Per dirla con Stewart Brand, au­tore di How Buildings Learn, “di quel che fai lì dentro, non gliene importa niente a nessuno”. Chi ha la responsabilità degli uffici e chi li progetta deve imparare a la­sciar perdere. Curiosamente, alla Pixar fu proprio Steve Jobs – noto dittatoriale arbitro del buon gusto – ad apprezzare questa caratteristica.

Construction mistakes

Quando svelò il suo piano di due soli megabagni che inducessero alla se­rendipità, si trovò di fronte alla rivol­ta delle donne incinte della Pixar, che non volevano fare un tragitto così lungo 10 volte al giorno. Dapprima seccato, Jobs poi battè in ritirata e permise d’installare altri bagni. Lasciò perdere lo spazio e diede la possibili­tà di controllarlo ai dipendenti. “Gli animatori che lavorano qui sono liberi di decorare i loro spazi di lavoro in qualunque modo vogliano – anzi, sono incoraggiati a farlo”, spie­ga Ed Catmull, capo della Pixar nel suo libro Creativity, Inc. “Passano le giornate dentro case di bambola rosa dal cui soffitto pendono lampadari in miniatura, in capanne tropicali fatte di vero bambù e in ca­stelli le cui torri di polistirolo espan­so, alte quattro metri e mezzo e accu­ratamente dipinte, sembrano taglia­te nella pietra”. E io credo che là den­tro ci sia anche qualche nanetto da giardino.

Tim Harford è editorialista del Financial Times. Il suo nuovo libro s’intitola Che casino! (EGEA).

Immagine di apertura: New Bond Street, foto Matt Stuart