Hyperemplyment è il libro che tutti gli “horizontal workes” di oggi dovrebbero leggere. Hugh Hefner, fondatore di Playboy, chiama “horizontal workers” coloro che come lui lavorano “da orizzontali”: sul divano, o nel suo caso, nel letto circolare della famosa Mansion di Chicago dove è nata la rivista. Paul B. Preciado nel saggio Learning from the Virus, pubblicato su Artforum, riprende questa definizione per descrivere la nostra condizione durante la pandemia: costretti a trasformare il nostro spazio domestico nel luogo di lavoro, ogni giorno dobbiamo essere in grado di monetizzare il nostro tempo nello spazio in cui (in teoria) dovremmo trascorrere anche momenti di piacere. “Hyperemployment” è il termine coniato dall’accademico e designer di videogiochi Ian Bogost e preso in prestito per il titolo del libro, nel quale si esamina l’evoluzione del concetto di labour nell’epoca pandemica e la condizione dei lavoratori in un tempo in cui il lavoro coincide con la vita.
Nel primo capitolo, Domenico Quaranta cita Preciado per introdurre il lettore ai temi di un libro che rassicura e mette ansia allo stesso tempo perché permette a ognuno di noi di riconoscersi in una inquietante condizione comune.
I testi sono profondamente legati alla crisi sanitaria. Mi chiedo, è stato questo periodo di discontinuità a dare il tempo e lo spazio per trarre tali conclusioni?
È un errore di prospettiva pensare che certe soluzioni siano state sollecitate dal virus e dalle sue conseguenze: la verità è che l’infrastruttura era già tutta lì, pronta ad essere utilizzata a pieni motori. Hyperemployment nasce come progetto espositivo nel 2019. Il decennio precedente aveva visto molti artisti che amo affrontare nelle loro opere le questioni del lavoro online e dell’impatto dell’automazione e dell’intelligenza artificiale. Il lavoro online era uno dei sottotemi più solidi di Cyphoria, la mostra che ho curato nel 2016 per la Quadriennale di Roma. Quando Aksioma, un istituto d’arte contemporanea di Lubiana, mi ha chiesto di sottoporgli un’idea di mostra, mi è sembrato naturale concentrarmi su questo. Hyperemployment si è poi trasformato in un palinsesto annuale [1], da aprirsi con la collettiva da me curata e chiudere con la pubblicazione di un libro. La mostra ha inaugurato nel novembre 2019. Quindi no, non è stato ispirato dalla pandemia, non lo considero nemmeno un progetto dotato di particolare preveggenza. Se la pandemia si fosse manifestata in un’altra epoca non ci saremmo inventati lo smart working: avremmo semplicemente reagito in altro modo. Diciamo piuttosto che la realtà è stata preveggente, e gli artisti con le loro magnifiche antenne hanno raccolto i segnali. A chi collega i puntini e ti annuncia quello che sta accadendo un minuto prima che arrivi resta davvero poco merito.
La stanchezza e la frustrazione di quelli che vengono definiti gli “horizontal workers” ha raggiunto, probabilmente, i suoi livelli massimi nel corso del 2020. Da dove si riparte dopo questo libro?
Da un cambiamento radicale che deve intervenire, prima ancora che al livello del pensiero o dell’azione, al livello dell’immaginazione. Sia la mostra che il mio testo nel libro si chiudono idealmente su Reverie, On the Liberation From Work [2], un lavoro del 2017 di Danilo Correale. Reverie è un esercizio di meditazione guidata in due capitoli che ci aiuta a immaginare un futuro post lavoro. Il presupposto implicito è che la fine del lavoro che la disoccupazione galoppante e la crescente automazione di ogni aspetto del ciclo produttivo lasciano ipotizzare non si realizzi perché siamo, semplicemente, incapaci di immaginarla. Perché il lavoro è talmente innervato nel nostro sistema di valori e nel modo in cui progettiamo la nostra vita che è praticamente impossibile pensarci senza. Ovviamente, non sarà una seduta di ipnosi a convincerci del contrario, ma Reverie punta il dito verso un obiettivo cruciale: un nuovo immaginario post-lavoro, post-capitalistico, post-pandemico va costruito, pazientemente, collettivamente. Dobbiamo abbozzare il quadro, rifinirne i dettagli, renderlo credibile e crederci. Forse allora questo immaginario comincerà a condizionare il modo in cui interveniamo sul presente, che è poi l’unico modo che abbiamo per cambiare il futuro.
La vita coincide con il lavoro: negli anni Sessanta e Settanta molti protagonisti della neo-avanguardia architettonica italiana dicevano la stessa cosa quando descrivevano i loro anni di attività e di ricerca. Ma al tempo aveva un’accezione positiva.
Quando ero piccolo, mio nonno mi raccontava spesso l’aneddoto di Vittorio Alfieri che si faceva legare alla sedia per portare a compimento la sua missione di scrittore. Quando, nel 2001, lessi L’etica hacker e lo spirito dell’età dell’informazione del filosofo finlandese Pekka Himmanen, non ebbi esitazioni nell’identificarmi nell’etica del lavoro degli hacker, nel loro rapporto appassionato con la programmazione che gli offre non solo sussistenza, ma anche vita sociale e intrattenimento e gli permette di contribuire al bene comune. Il lavoro come missione dell’artista, e il lavoro come passione dell’hacker, sono modelli ideali forti che nemmeno il cinismo neoliberale è riuscito a incrinare veramente. Se, in questo momento, sto rispondendo a questa intervista invece di giocare con i miei figli, guardare un film o scrollare Tik Tok, non è solo perché mi aiuta a vendere un libro; è perché mi mette in contatto con te, e potenzialmente con altre persone; perché mi diverte, mi fa sentire realizzato e vivo, membro attivo di una comunità; mi fa sentire, con imbarazzo postmoderno, in missione. Se, dopo la fine del lavoro, continueremo a “lavorare” è perché questi ideali sono sopravvissuti.
Che cosa li incrina, allora? Perché viviamo l’identificazione vita-lavoro come una malattia?
Perché, come ha spiegato in tempi non sospetti Tiziana Terranova [3], tutto il “lavoro libero” che riversiamo in rete diventa generatore di plusvalore capitalistico; perché qualsiasi interazione – lavorativa o meno – che abbiamo con i nostri dispositivi (incluso guardare un film, leggere un libro, scrollare Tik Tok, videochiamare i nostri cari, fare un’intervista per Domus, persino dormire accanto allo smartphone) è stata assoggettata alle stesse dinamiche; perché, mentre ci impoveriamo, vediamo poche entità accumulare immense ricchezze sulla nostra abilità di generare e condividere dati; perché, come ha notato Silvio Lorusso [4], uno degli autori di Hyperemployment, la nostra missione e la nostra passione ci vengono rigurgitate addosso come dettami di una visione imprenditoriale dell’esistenza che serve solo a farcene tollerare la precarietà; e perché ogni sforzo che facciamo per liberarci da queste sabbie mobili in cui siamo impantanati serve solo a farci sprofondare di più. La pandemia non ha fatto che accentuare questa percezione: ci ha chiusi in casa, costringendoci a mediare ogni nostra interazione e attività, e mentre vediamo i nostri conti assottigliarsi, vediamo alcuni soggetti decuplicare i propri introiti.
Il tempo libero non esiste più perché siamo costantemente on line e rintracciabili in pochi secondi. Perché non riusciamo più a controllare questo abuso di controllo?
Difficile dare una risposta univoca. Ricordi la prima volta che hai risposto a una email appena ricevuta da un treno in corsa? O che una voce sintetica ti ha guidato dove dovevi andare, senza bisogno di fermarti e trovare l’orientamento su una mappa spiegazzata? O che Amazon ti ha suggerito un libro meraviglioso che non avresti mai trovato alla Feltrinelli dietro l’angolo? È stato elettrizzante. Il fatto è che siamo cavie da laboratorio che vengono esposte costantemente alle innovazioni tecnologiche senza che queste vengano prima testate in un contesto sicuro, per studiarne gli effetti a lungo termine. Quando esce un nuovo dispositivo, compare una nuova app, c’è una evoluzione significativa nell’infrastruttura tecnologica a nostra disposizione, è come se la CIA degli anni Cinquanta, invece di varare il programma MKUltra, avesse riversato l’LSD direttamente negli acquedotti di tutto il mondo. Le tecnologie ci impongono le loro logiche, che diventano rapidamente automatismi, e prima che possiamo rendercene conto siamo riprogrammati.
Gli unici strumenti che possono limitarci sono i dispositivi stessi? Penso, per esempio, a quando Apple o Microsoft ti comunicano il tuo utilizzo mensile dei vari dispositivi.
Le app di time management sono divertenti, ma rendono visibile il sintomo più che offrirci la cura. Dovremmo imparare a pensare al tempo libero come a un valore, e coltivarlo attraverso un esercizio e uno sforzo continuo, una revisione continua delle nostre scelte, anche minime. Esco a fumare una sigaretta, prendo o non prendo il telefono?
Quindi quale è il vero tempo del piacere, oggi?
Non è la vera domanda. Il piacere è disseminato ovunque: nello sticker che ho appena ricevuto, nella storia che ho “ristoriato”, nel corriere che suona il campanello per consegnarmi un pacco che ho ordinato ieri, nello screenshot pixelloso che ho fatto a mia madre nel corso dell’ultima videochiamata. In fondo il problema è tutto qui.
Parlando esplicitamente dei social media, è evidente che lavoriamo per Facebook, per Instagram, per Tik Tok and so on, ogni giorno. Gratuitamente.
Una delle ipotesi più verosimili (o quanto meno concepibili) su una società post lavoro si fonda sulla redistribuzione parziale degli immensi introiti del capitalismo delle piattaforme ai cittadini, che di fatto forniscono la materia prima di questa economia, ossia i loro dati. Suona equo, giusto, persino sostenibile. Però, mi chiedo: il fatto di vederci ricompensati per i dati che ora forniamo gratuitamente ci salverebbe dal disagio di vedere monetizzate le nostre interazioni, i nostri affetti, i nostri contributi alla mente alveare?
Di recente mi sono interessata al perché indossiamo abbigliamento da lavoro in contesto urbano. Molti brand sostengono che questo trend offre la possibilità, alle persone abituate a stare al computer più di dieci ore al giorno, di provare quella nostalgica e romantica sensazione di fare parte di una classe sociale che lavora nel settore primario e secondario. Cosa ne pensi, non lo trovi un po’ offensivo e classista?
No, non mi sembra offensivo e classista. Il recupero nostalgico e disincantato dell’abbigliamento da lavoro nella moda mi sembra piuttosto la conferma definitiva della morte di una “forma del lavoro” che trovava, tra i suoi risvolti positivi, la possibilità di esprimere un’identità e una solidarietà di classe. Come ha notato, tra gli altri, Bifo nella sua splendida introduzione a After the Future (2011), la globalizzazione del mercato del lavoro e l’avvento del lavoro precario hanno sottratto alle nuove generazioni la possibilità di riconoscersi in una serie di valori condivisi, di esprimere una coscienza sociale e dare vita a una consapevole azione collettiva. Secondo Bifo la solidarietà dei lavoratori è stata minata alla radice. Più che il recupero di un’idea di lavoro che coincide con lo sporcarsi le mani, il fenomeno di cui parli mi sembra l’omaggio nostalgico a una solidarietà e a una empatia ormai impossibili, ma che questa generazione molto probabilmente ha fatto in tempo a conoscere, nell’infanzia, dalla vita e dalla voce dei padri e dei nonni che indossavano quelle tute. Padri operai che, grazie alle loro lotte, hanno traghettato le loro famiglie dal proletariato alla classe media, hanno mandato all’università i figli, e ancora oggi riescono a fornire stabilità alle loro vite incerte e fluttuanti.
- [1]:
- Hyperemployment – Post-work, Online Labour and Automation, !Mediengruppe Bitnik, Felix Stalder, Silvio Lorusso, Luciana Parisi e Domenico Quaranta, 2020, Nero
- [2]:
- What is “Reviere”?, Danilo Correale, 2017. http://www.danilocorreale.com/revr
- [3]:
- Producing Culture for the Digital Economy, Terranova Tiziana, 1967, Duke University Press
- [3]:
- Entreprecariat, Silvio Lorusso, 2019, Onomatopee
Immagine di apertura: Guido Segni, Demand Full Laziness, 2018 - 2023. Vista dell'installazione in Hyperemployment, MGLC - International Centre of Graphic Arts, 7 novembre 2019 - 19 gennaio 2020. Photo: Jaka Babnik. Archive: MGLC, Aksioma.