Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1040, novembre 2019.
Sono passati quasi 60 anni da quando, nel 1961, Jane Jacobs scrisse il suo capolavoro, Vita e morte delle grandi città americane, introducendo idee rivoluzionarie su come le città funzionano, si evolvono e declinano; idee che sono poi diventate un canone comune per gli architetti e gli urbanisti di oggi.
Jacobs vedeva le città come ecosistemi dinamici e complessi, con una loro logica e un loro ordine. Con un occhio attento ai dettagli, ha preso in esame marciapiedi, parchi, design e auto-organizzazione. Cosa forse ancora più importante, ha ribadito l’importanza del ruolo dei residenti per lo sviluppo dei diversi quartieri.
Come i big data cambiano le città. E ci controllano
In ambito urbano, l’uso dei big data promette nuovi standard di sostenibilità e mobilità. Il rischio è che venga piegato a sottili tecnologie di persuasione e governance.
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- Aksel Ersoy
- 06 novembre 2019
Per descrivere la vita quotidiana degli abitanti della città contemporanea, che comporta elementi di causalità, fiducia negli enti pubblici e contatti diretti, Jacobs ha usato il concetto di sidewalk ballet (“balletto del marciapiede”). Sebbene “sia vita, non arte”, afferma che, “con un po’ di fantasia, possiamo definirlo arte della città e paragonarlo alla danza – non a una banale danza sincronizzata dove tutti alzano una gamba allo stesso tempo, volteggiando all’unisono e inchinandosi in gruppo, ma a un intricato balletto dove i ballerini, da soli e in gruppi, hanno ruoli precisi che, miracolosamente, si rafforzano a vicenda e compongono un insieme ordinato. Il balletto del marciapiede non si ripete mai da un posto all’altro e, in ogni luogo, è sempre ricco di nuove improvvisazioni”.
Jacobs vede la città come un contesto ricco, osserva cose che pianificatori e professionisti si sono rifiutati di accettare: guardando la realtà dal basso verso l’alto, dal punto di vista cioè delle cose ordinarie. Andando al di là della semplificazione, penetrando nella città storica, demolendo e rinnovando, si meraviglia della “complessità organizzata” di quel disordine dove le persone trascorrono tranquillamente il tempo. Offre una visione dei centri urbani che ha permesso ai cittadini comuni di riconoscersi come artefici della città, e non semplicemente come suoi utenti, e di trovare il loro vero posto in ambito urbano.
Oggi, tuttavia, le città hanno bisogno di ordine, mentre le allettanti promesse della meritocrazia e della mobilità sociale suonano sempre più vuote. Guardiamo alla Silicon Valley e alla sua cultura con un barlume di speranza. E le promesse dei big data si sono guadagnate un notevole sostegno politico e l’interesse dei media. Quando, nel 2017, a Toronto è stato presentato Sidewalk Labs, un “quartiere intelligente” ideato da Google (vedi Domus 1039), la promessa era che, combinando un’urbanistica umanistica con le tecnologie più all’avanguardia, fosse possibile raggiungere nuovi standard di sostenibilità, convenienza, mobilità e opportunità economiche. Tale visione è stata salutata da un’ondata globale di elogi, tra cui quelli dell’ex presidente di Google, Eric Schmidt e, ovviamente, del primo ministro canadese, Justin Trudeau. Mentre l’espressione d’interesse di Google, fortemente enfatizzata dai media, ha evidenziato le aspirazioni della città e la sua promessa di diventare un hub per le aziende di tecnologia dell’informazione in modo che possano utilizzare l’area come banco di prova per infrastrutture ad alta tecnologia – come minibus e vagoni per le consegne a guida autonoma nel sottosuolo – la visione è associata a una nuova mentalità secondo la quale le città sono riducibili a un insieme stratificato di sistemi funzionali da proteggere, monitorare e ottimizzare. La visione del futuro secondo Sidewalk Labs cerca di ‘ottimizzare’ la qualità della vita usando algoritmi d’intelligenza artificiale collegati a una vasta gamma di sensori che ascoltano attentamente le città mentre svolgono le loro attività quotidiane. Certo, sarebbe fuorviante sostenere che tali sistemi intelligenti non servano.
Questa visione è stata salutata da un’ondata globale di elogi, tra cui quelli dell’ex presidente di Google, Eric Schmidt e, ovviamente, del primo ministro canadese, Justin Trudeau
Sidewalk Labs propone di creare una piattaforma che regoli dinamicamente i sistemi civici: dalle reti energetiche e dalla gestione dei rifiuti alla quota di strade aperte al traffico, all’arredo urbano e ai parcheggi – a seconda delle condizioni. Si tratta di un’opportunità straordinaria per qualsiasi autorità locale, poiché questi sistemi contribuiscono a un miglior controllo delle risorse pubbliche e della gestione. La preoccupazione principale è associata ai modi in cui questi metodi di sorveglianza sono stati utilizzati come “strumenti tecnologici”. Con tali sistemi, gli abitanti delle città, i Comuni e le aziende tecnologiche più intraprendenti avranno l’opportunità di utilizzare frammenti di questo immenso flusso di dati per applicazioni che vanno dal prosaico (per esempio, le app per trovare parcheggio) al futuristico (bus navetta a guida autonoma). Tuttavia, tali sistemi evidenziano anche un approccio alla vita quotidiana particolarmente interessante. Fondamentale è l’idea d’implementare sottili tecnologie di persuasione e governance in modo che le persone scelgano di agire in modi determinati.
Ciò funziona attraverso l’ormai ben collaudato concetto di “architettura delle scelte”, dove le opzioni sono presentate in modo da spingere a selezionare determinate alternative (quelle preferite da chi progetta nuove politiche) rispetto ad altre. Mentre il paradigma ortodosso delle strategie politiche si è concentrato sull’alterazione delle cognizioni per modellare il comportamento, l’attenzione in questo caso è sull’alterazione del contesto – cambiare il comportamento senza necessariamente “cambiare le opinioni”. Dietro questo costrutto centrale, che contribuisce direttamente all’etichetta di “paternalismo liberale” talvolta associato a questi approcci, è evidente la presenza di una serie d’inflessioni teoriche che modellano l’attuazione pratica, sul campo, delle politiche inquadrate da queste idee. Per esempio, la teoria dell’autodeterminazione, che valuta le possibilità di spingere i singoli ad assumersi maggiori responsabilità personali per ridurre l’impatto ambientali del loro comportamento o a rispettare le norme di pagamento dell’imposta sul reddito o del canone televisivo. La miscela d’intuizioni scientifiche derivate da modelli ‘neurologici’ accoppiati con l’abbondanza di dati costituisce oggi una combinazione molto potente.
L’innovazione distintiva di questi approcci è accettare il fatto che le persone non si comportano in modo conforme ai modelli di “attori razionali”. Sviluppano invece abitudini ed euristiche cognitive che stabiliscono modelli di comportamento. E, cosa ancora più importante, nel loro processo decisionale sono guidati da stimoli affettivi che a volte danno un’apparenza d’irrazionalità. Ci sono conseguenze importanti e significative in termini di come la regolamentazione e l’ordine sociale vengono raggiunti da questi approcci comportamentali, spesso definiti nudging (“spinte gentili”). Il termine “regolazione algoritmica” è stato usato come parte di una proposta riguardo a come l’applicazione di “analisi dei big data” alle grandi quantità di materiali open source oggi comunemente disponibili può permettere la realizzazione di un servizio pubblico più efficace ed efficiente. La regolazione algoritmica opera elaborando grandi flussi di dati continuativi come base per la misurazione in tempo reale (o quasi in tempo reale) e utilizzandola per regolarne e adattarne la trasmissione.
Ci sono conseguenze importanti e significative in termini di come la regolamentazione e l’ordine sociale vengono raggiunti da questi approcci comportamentali, spesso definiti nudging (spinte gentili)
Alla fine degli anni Ottanta, Nikolas Rose (1989) ha identificato l’interesse peculiare del progetto neoliberale del Dopoguerra con un “governo dell’anima”. Rose ha suggerito provocatoriamente che, abilitato da una serie di discipline ‘psi-’, il lavoro di governance si basava sempre più sulla comprensione e la manipolazione delle sogget- tività e dei sé privati delle persone. Sfruttando il concetto foucauldiano di ‘tecnologie’, il suo obiettivo era articolare come il percorso per il controllo dei comportamenti dei cittadini fosse percepito nella volontà di raggiungere le loro stesse anime. Oggi ci stiamo avvicinando a suggerire come l’ossessione di governare l’anima sia da considerarsi inutilmente difficile. Al suo posto sono emerse forme di tecnologie integrate in altre modalità di governance.
Tuttavia, finché continuiamo a credere in noi stessi e nelle nostre scelte e non in quello che ci viene servito su un piatto d’argento, il futuro è ancora pieno di speranza. Cercando le regole di condotta nella vita, Rousseau le trovava “nel profondo del mio cuore, tracciate dalla natura in caratteri che nulla può cancellare. Non devo fare altro che consultare me stesso riguardo a ciò che desidero fare; ciò che sento essere buono è buono, ciò che sento essere cattivo è cattivo”. Pensatori umanisti come Rousseau dovrebbero tornare a ricordarci che i nostri sentimenti e desideri sono la fonte ultima di ogni significato e che il nostro libero arbitrio è, quindi, la massima tra tutte le autorità.
Aksel Ersoy insegna Gestione dello sviluppo urbano, alla Delft University of Technology. Tra i suoi ambiti di ricerca, la governance futura delle città, le infrastrutture urbane e l’economia circolare.