Secondo una leggenda urbana, la Nasa spese milioni di dollari per realizzare una penna “spaziale” per gli astronauti che funzionasse a gravità zero, mentre i cosmonauti sovietici si portavano semplicemente delle matite. È una storia palesemente falsa, ma rimane un’allusione a una sostanziale futilità dell’esplorazione dello spazio. In altre parole, perché spendere soldi “lassù” quando abbiamo tanti problemi da affrontare “quaggiù”? La “corsa allo spazio” sarà anche stata concepita durante la Guerra fredda, ma il suo scopo (per lo meno sul fronte americano) era indicato nelle prime righe della legge che istituì la Nasa nel 1958: “Il Parlamento qui dichiara essere politica degli Stati Uniti che le attività nello spazio debbano essere ispirate a obiettivi pacifici a beneficio di tutta l’umanità”. Sessantasei anni e 650 miliardi di dollari dopo, è facile calcolare quanto l’umanità ne abbia tratto beneficio. La risposta – oltre 2.000 tecnologie derivate con oltre 30.000 applicazioni e iniziative commerciali – si trova in ogni aspetto della nostra vita. Interventi di by-pass che salvano la vita, arti artificiali, risonanza magnetica, impianti cocleari per alleviare la sordità e termometri a infrarossi hanno trasformato la medicina. Pannelli solari efficienti, purificatori d’acqua e tecnologie antinquinamento ci consentono di contribuire a rendere più sano il pianeta. Lampade a Led, migliori equipaggiamenti antincendio e pneumatici più sicuri per aerei e auto hanno tutti origine nelle innovazioni della Nasa. Memory foam, Gps, occhiali da sole e la minuscola macchina fotografica dei nostri telefoni cellulari rendono la vita più facile e più gradevole.
Norman Foster: “Esplorare lo spazio ha fatto bene all’architettura”
Nell’editoriale del nuovo Domus, il guest editor 2024 spiega come l’esplorazione spaziale abbia prodotto innovazioni tecnologiche che hanno beneficiato l’umanità in vari ambiti, incluso il mondo del progetto.
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- Norman Foster
- 05 luglio 2024
Quando ero ragazzo, nessuno di questi piacevoli frutti dell’esplorazione spaziale era disponibile. In un primo momento, il mio interesse per tutto ciò che era extraplanetario era mediato dalla lente della fantascienza: le avventure cinematografiche di Flash Gordon e di Buck Rogers mi conquistavano con la loro visione di un futuro ispirato alla tecnologia.
L’architettura terrestre ha sempre avuto un ruolo nel progetto di strutture destinate all’ambiente extraterrestre.
Come per molti della mia generazione, tante di queste idee prendevano forma intorno al personaggio di Dan Dare, l’eroe della rivista Eagle. Come simbolo e metafora, il genere narrativo dell’esplorazione spaziale ha lasciato segni profondi, da cui ho spesso tratto ispirazione: il Millennium Bridge di Londra trae spunto dalla “lama di luce” di Flash Gordon. Nella sua parodia della copertina Objectif Lune di Tintin, il fumettista Focho si ispira chiaramente a questo immaginario. I molti riferimenti fatti al Campus Apple che “è atterrato” dallo spazio esterno o “sta per decollare” ci hanno fatto piacere perché alludevano all’“era spaziale” come sinonimo di progresso e di sviluppo. Quando la “corsa allo spazio” iniziò davvero, con il lancio del satellite Sputnik nel 1957, ero ancora ragazzo.
La proliferazione di innovazioni necessaria negli anni Sessanta e Settanta ai programmi di atterraggio lunare Apollo e Soyuz iniziò a filtrare immediatamente e materialmente nella pratica dell’architettura. I veicoli lunari sovietici a propulsione solare Lunokhod possono essere considerati un riferimento per il nostro programma di rigenerazione dell’isola di Gomera nel 1975: progettammo alloggi verdi e sostenibili alimentati da pannelli solari simili a quelli dei Lunokhod. Il programma prevedeva anche il riciclo delle acque attraverso sistemi di purificazione sviluppati per gli astronauti. Più tardi, il modulo lunare Apollo – di cui tengo una fotografia e un modello all’ingresso del nostro studio – ispirò le nostre prime incursioni nel progetto d’arredo per Renault e per il successivo sistema Nomos. Una visita al Vehicle Assembly Plant, l’impianto di montaggio del Centro spaziale Kennedy, mi fece un grande effetto: non solo per le impressionanti rampe di lancio mobili e i giganteschi razzi Saturn, ma per lo straordinario ambiente interno dove venivano costruite le navette.
Echi della scala di questo spazio sono passati nel nucleo centrale della sede della Hbsc di Hong Kong (1986), il primo grattacielo che abbiamo costruito. Altri spunti presi dall’esplorazione spaziale si trovano nei nostri progetti per la comunità di Masdar ad Abu Dhabi (2014), la prima al mondo alimentata a energia solare. La superficie dell’edificio utilizza, adattandolo, un materiale usato nelle tute spaziali per contrastare le temperature estreme dello spazio. A Masdar, il materiale funziona all’inverso: riflette il calore e trattiene l’aria fredda. Nel calore più estremo, è sempre fresco al tocco. Più di recente, la tecnologia elaborata per una base lunare in collaborazione con l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) è stata reinterpretata dalla Norman Foster Foundation per la costruzione di un prototipo di stazione per droni destinati a consegnare forniture sanitarie in Africa. Gli influssi tra esplorazione spaziale e architettura non sono totalmente a senso unico.
La proliferazione di innovazioni necessaria negli anni Sessanta e Settanta ai programmi di atterraggio lunare Apollo e Soyuz iniziò a filtrare immediatamente e materialmente nella pratica dell’architettura
L’architettura terrestre ha sempre avuto un ruolo nel progetto di strutture destinate all’ambiente extraterrestre. Le capsule metaboliste e il lungimirante programma abitativo Habitat 67 di Moshe Safdie a Montreal hanno dato forma ad alcune proposte radicali, culminate nella base spaziale Toro di Stanford proposta dalla Nasa nel 1975. Peso ed efficienza dei materiali sono temi fondamentali per costruire nello spazio e quindi non è una sorpresa che i progetti geodetici di Richard Buckminster Fuller (che ci considerava tutti copiloti dell’“astronave Terra”) si legassero ai progetti della colonizzazione dello spazio. Le qualità che rendono efficienti le cupole geodetiche le fanno diventare ideali per gli habitat spaziali. I collegamenti non si fermano qui. Due dei progetti più lungimiranti di Fuller – Manhattan Dome (1959) e Cloud Nine (1960) – usavano questo tipo di struttura per creare un livello di controllo climatico totale analogo a quello essenziale per una colonia spaziale. Nel 1971 ho potuto elaborare su scala minore questa idea insieme con Bucky, con il progetto Climatroffice. Il parallelo con le proposte della Nasa del 1975 è evidente ed è la dimostrazione di alcune delle simbiosi tra l’architettura della Terra e quella dello Spazio. I primi passi al di fuori del nostro pianeta, iniziati negli anni Cinquanta del Novecento, sono il simbolo della possibilità di costruire un mondo nuovo e migliore sulle ceneri di quello devastato dalle applicazioni militari della tecnologia nel decennio precedente, e costituiscono un tempestivo monito ad ascoltare le lezioni della storia. Come disse John Fitzgerald Kennedy nel 1962, “Noi decidiamo di andare sulla Luna entro questo decennio e di fare altre cose non perché siano facili, ma perché sono difficili”. Decisamente difficili, ma proficue per l’umanità. I più recenti sviluppi dell’esplorazione spaziale – la tecnologia della blockchain, l’intelligenza artificiale, la stampa 3D, la scienza dei materiali, la nanotecnologia e la biotecnologia – stanno già trainando quella che spesso viene chiamata la quarta Rivoluzione industriale. Le implicazioni per l’architettura e la scienza delle costruzioni sono profonde. Il futuro mi appassionava da giovane e lo fa ancora oggi.
Immagine di apertura: Un dipinto di Don Davis che ritrae l’interno dello Stanford Torus, il progetto di una colonia spaziale a forma toroidale elaborato dallo studio estivo del Nasa Ames alla Stanford University nel 1975. Foto Nasa Ames Research Center