Nello skyline degli architetti, l’alta presenza fisica della figura biblica di Michele De Lucchi si propone come un logotipo, come perfomance, come un’icona chiara e precisa. L’implicita autorevolezza del suo aspetto gentile gli permette di presentarsi sottotono, di parlare in modo lieve e pacato, con il sorriso e con una voce un po’ bambina. Il personaggio è preciso, sintetico, veloce, cartesiano, arguto, romantico, organizzatissimo, ed è provvisto di un importante fratello gemello. Ha un’ampia misura dell’orizzonte concessagli dalla stessa altezza della sua persona, e per questo può guardare le lontananze come dalla torretta di un osservatorio, da dove può scrutare il mondo in molte direzioni diverse e segnalare a distanza i propri messaggi come fosse un faro intermittente. Il suo vezzo di indossare i completi grigi tipo Dostoevskij e gli occhiali rotondi tipo Pessoa lo fanno transitare vertiginosamente da Mosè alla Mitteleuropa, con le conseguenze del caso, cioè come un essere pacifico, ma comunque anche come un contestatore ex-colorato. Così che una riga T a tracolla è sempre pronta a sparare, con la mano sul grilletto dal suo palazzo-studio in via Varese a Milano.
E nel perlustrare il suo corpo come fosse un Arcimboldo, ecco comparire anche la testa di un Giano bifronte, anzi di un Giano trifronte. Il grande barbuto e prudente Dio del potere e delle differenze. Ecco infatti tre miraggi divaricati e contraddittori, tre scenari diversi, separati e un po’ alienati, tutti amati allo stesso modo. Il primo è l’utopia dell’Arcadia: interiorità, poesia, scrittura, prato, lago, matite, attrezzi rustici da lavoro per fabbricare delle cose in solitudine con le proprie mani, dove trattenere accesa la fiaccola della nostalgia radicale. Il secondo è l’utopia della produzione: piccola, elegante e privata, oppure infinita e meccanica, come l’energia luminosa della Tolomeo, lampada che accende le stanze di mezzo mondo. Il terzo sguardo di Giano-De Lucchi è l’utopia dell’architettura: edificio dopo edificio, museo dopo museo è maturato un linguaggio sottile, fine, empirico e pulito, grande o piccolo, nei posti più disparati e magari anche assurdi del globo.
Così che, laurea dopo laurea e premio dopo premio, il designer, professore, architetto e artista è diventato un conquistatore, uno dei più sicuri, bravi, celebri e dilatati professionisti della neo-socialità. Le costole di questa figura di Arcimboldo-De Lucchi da tempo ormai sono fatte di legno. L’amato legno. Esse respirano il profumo del legno come salvatore dell’umanità, e perciò si trovano qua e là ingrandite ed eleganti poggiate a suoli e territori, sotto forma di oneste coperture di spazi da riunione.
Perché, ritornando all’idea di uno skyline fatto dalle figure di architetti, il corpograttacielo di Michele De Lucchi ha assunto sembianze arboree, è quasi un enorme albero pieno di storia, di collaboratori, di avvenimenti, che protegge ed è protetto dalla Pietà Rondanini nascosta in un salone del Castello Sforzesco di Milano. Un albero da cui maturano i più disparati e tantissimi frutti, che tutti rappresentano la grandiosità di una possibile Europa fiabesca.